Girolamo De Simone

 

IL MIO CHIARI

 

Il mio incontro con Beppe risale al 1994. L’occasione è la nascita di Konsequenz, una rivista dedicata ai plurali in musica, nata a Napoli in piena egemonia italiana del pensiero unico in musica (con il prevalere degli sperimentalismi sulla sperimentazione). Chiari aderisce subito con entusiasmo, e diventa il più attivo dei partner della rivista. Lì nasce anche il nostro rapporto personale, di ‘riconoscimento’. Beppe comincia a mandarmi note, musica, libri, opere, calligrafie, copie, anastatiche. Si tratta di un ‘travolgersi’ a vicenda. Certamente cìè un contagio reciproco. Una bellissima storia di condivisione creativa ed artistica.

Ed è quindi proprio di questo periodo, quello che va dal 1994 fino al 2006, data della scomparsa, che voglio occuparmi qui.

 

Proprio a partire dal 1994, Chiari approfondisce alcuni temi teorici. La teoria, ovvero ‘una’ delle teorie, diventa con Giuseppe Chiari autentico soggetto di critica sociale, ed è offerta tanto nel Trattato di musica (1994, ma la parte che dà titolo al volume è stata elaborata «in un periodo che va dal 1970 al 1990») che nella successiva Teoria (1994).

 

Il Trattato di musica non è un anti-trattato come i precedenti. È, al contrario, un trattato fluxus, che serve per fare. Rappresenta il più importante sforzo per il lancio di suggerimenti, strategie, operazioni concettuali, e addirittura veri e propri ‘diagrammi’ che servono a comporre con l’ausilio della sola logica (ovvero operazioni utili anche a chi non conosca le prescrizioni ufficiali della musica).

 

Ragionare di teorie è posizionarsi criticamente per collocare il molteplice delle grammatiche possibili, è dire apertamente che la valutazione, la distinzione del ‘quale’ è politica. Se politica è la gerarchizzazione tra melodia e ritmo, melodia e armonia, e politiche sono «le classificazioni, le limitazioni di gruppi, le definizioni di gruppi» che «servono a dare disposizioni per gruppi», stabilire una grammatica significa che l’autorità intende decidere e consegnarci anche la verità. E Politica, dunque, è la reazione. Politica è la prescrizione volta all’abbattimento di tali gerarchie imposte da grammatiche e da sintattiche, perché «non c’è una corrispondenza diretta fra la complessità teorica (o pseudo-teorica) e la quantità musicale». Vero è che, in effetti, «non tanto la diversità, ma la pluralità è stata considerata fastidiosa»: cioè, già la semplice pluralità, prima del suo articolarsi in opere-musiche-teoriche differenti. Le schematizzazioni tipiche della musica occidentale (constatare regole diverse per periodi lontani nel tempo implica la comprensione della loro ragione politica), la verticalizzazione nell’accompagnamento, l’incatenamento dei rapporti intervallari inducono Chiari a dichiarare: «la mia convinzione è che si sia trattato – e forse ci siamo ancora dentro – di una vicenda politica». Laddove chi voglia essere divergente non riesca ad istituire un giudizio critico-estetico, tale impedimento è di natura sociale, difficoltà che innescano meccanismi inconsapevoli di censura; per questo «il discorso, e quindi la lotta è politica».

 

Il Trattato si conclude con l’auspicio che in futuro «Si potrebbe insegnare una musica in un sapere sulla musica che dicesse la varietà la moltitudine delle musiche», ovvero considerare questa musica come una delle possibili a darsi.

 

Teoria riprende alcuni di questi temi, con prevalente richiamo all’arte. Vi si tracciano molte linee, come quella della produzione, della commissione, del possesso dell’opera. Anche qui la storia è movimento, occorre liberarsi della mistica che prende denaro, gerarchia, potere e vende l’archeologia come se fosse opera. Bisogna evitare di «esercitare autorità».

Teoria si chiude con la frase «o fai ballare le parole o fai ballare i fatti. È doveroso far ballare la parola», tema che sarà al centro dell’Autocritica, pubblicata anni dopo dalla rivista «Konsequenz», che si concluderà con la constatazione «non abbiamo fatto ballare la parola. O fai ballare le parole o fai ballare i fatti», senza più optare per «la parola», con una attualissima intuizione, ovvero la denuncia, anche  nella nostra attualità italiana, della “Scomparsa dei Fatti”, titolo di un libro che ha venduto migliaia di copie.

 

Intanto, Beppe riprende la scrittura su pentagramma, con un ciclo di fascicoli manoscritti, dalla copertina grigia, inviati ad alcuni interpreti, tra cui Daniele Lombardi, Giancarlo Cardini e Girolamo De Simone, intitolati semplicemente Musica. Altri lavori importanti hanno invece copertina gialla o avorio. Si tratta della splendida raccolta per pianoforte Le foglie. I numeri (1998); di GDSN (ovvero Girolamo De Simone napoletano, 20 marzo 1998); 3n + a (1998); Solo per tromba; Cinque meno uno (aprile 2000), per pianoforte verticale; FA SOL («a Girolamo De Simone, napoletano», maggio 2000). Ancora molteplici sono gli interventi su fogli altrui, come Cancellare la musica classica (««1998, a Girolamo De Simone»), a metà strada tra operazione concettuale, oggetto d’arte e visivismo.

Questi brani sono tra i meno noti, e vengono generalmente esclusi anche da elenchi, sommari, bibliografie (che risultano quindi incomplete e non esaurienti).

 

 

Voglio soffermarmi in particolare su due brani.

GDSN, dedicato all’estensore di queste note,  è un contrappunto tutto giocato all’interno dell’estensione centrale dei due pentagrammi usati dai pianisti (con tre soli suoni che vanno verso le sottolinee della chiave di basso). Ho sempre eseguito il brano non troppo lentamente, senza eccessiva alternanza tra le mani, quasi a conservare una possibilità di lettura melodica, ma priva di un eccesso di significanza, ovvero come un’esplorazione delle false consonanze (rapporti tradizionalmente considerati ‘consonanti’ resi ‘non consonanti’ attraverso collocazioni/esecuzioni divergenti).

 

Cinque meno uno, ancora dedicato a chi scrive, è un pezzo sorprendente, tra i pochi secondo Chiari a contenere nel titolo il suo progetto. L’Autore sovrappone cinque intervalli uguali costruendo un meta-intervallo e sottraendovi un semitono. Le armonie late (armonie in senso lato, in posizione non necessariamente lata) che ne derivano sono al massimo tre per pagina (per un totale di dieci bicordi che occupano sei pagine), e vanno quindi lasciate risuonare a lungo, nella proporzione tempo/spazio suggerita dalla collocazione nella pagina. Il pezzo va eseguito sul pianoforte verticale, il che sembra confermare l’indicazione di «Lento quasi fermo» apposta da Chiari in copertina, anch’essa eccezione alle pratiche compositive del Nostro.

 

Negli stessi anni, facendo seguito alla Teoria del 1994, Chiari pubblica, tra gli altri, Fantamusicologia e l’importante Storia dei modelli musicali

Del 1999 è una raccolta di fotografie che ripropone Gesti sul Piano, in modo molto più suggestivo e dettagliato; del 2000, invece, la ristampa di Musica madre, con differente impaginazione, tanto ricco di aggiunte da attualizzarlo e renderlo ancor più un testo di riferimento.

Questi volumi hanno un intento totalizzante o autoritario? Mai. Auspicano una teoria al ‘centro della musica’? Certamente no: ma questo è un valore aggiunto, che fa di Chiari un anticipatore di quelle che oggi appaiono come le più diffuse prassi di fruizione musicale quotidiana (ma dovrei dire ‘consumo’, riprendendo un discorso teorico che ho già svolto altrove).

La storia della musica ha senso se esiste anche quella della serenata, della canzonetta, quella fatta a casa propria distesi sul pavimento, quella che magari si occupa solo di sette suoni, come dichiarato da Beppe nella sua Fantamusicologia: «Vorrei anche leggere una storia delle brunette. / Ma non c’è. / Una storia della serenata».

 

La riflessione più recente, quella che parte da Autocritica, e si mostra perplessa di fronte agli sviluppi attuali del marketing musicale, va nel senso di una ‘sconfitta’ non personale dell’artista/musicista Chiari ma di una sconfitta della dimensione comunitaria (e dei movimenti) a scapito di quella nominalistica e personalistica che non farebbe che perpetuare l’errore dei repertori. A marzo del 2006 Chiari mi dice: «la musica, oggi, di tutto quel che ho fatto ne fa tranquillamente a meno, e io devo constatare questo. Non posso non constatarlo. Però questo non significa che abbia sbagliato, o che non abbia fatto ciò che avevo la sensazione e il dovere di fare».

 

L’oper(a)zione Chiari non può essere letta criticamente se non si rispetta il fluxus che vi è in essa, e tuttavia va immaginata nel successivo sviluppo della storia, in ciò che è accaduto davvero nei fatti, nelle abitudini della gente dopo la deflagrante stagione degli anni Settanta ed il lento, necessario, importante lavoro divulgativo durato fino alla sua scomparsa, tentando di leggere se le opere e le azioni hanno lasciato un’impronta seria in pratiche politiche e prassi comunitarie, e se hanno impresso un segno duraturo nelle didattiche. Se un senso dell’opera d’arte è nella sua funzionalità ad altro, verifichiamo se rinveniamo questo senso. A me pare di sì: «La musica bassa è musica. / La musica alta è musica. / E ognuno ascolta ciò che vuole».

Esattamente ciò che è davvero accaduto.

 

Poco prima della scomparsa, Beppe guarda alla ‘sua’, personale, storia. Se «…consideriamo le varie battaglie: una chiamiamola la musica elettronica, l’altra l’improvvisazione, infine il teatro musicale e tutto ciò che può venire dalla cosiddetta avanguardia o dal futurismo, queste tre attività sono state abbastanza combattute, e  per me sono perse. Dire che hanno sfondato per me è stupido, quasi. C’è anche il dovere di non essere stupidi. Non si può dire che la musica elettronica abbia vinto: se ne può fare tranquillamente a meno. Tutta l’enorme  fiducia che avevamo nell’improvvisazione, tutto il fiato, il coraggio, il sacrificio che abbiamo messo nell’improvvisazione, cosa ce ne rimane? Certo rimangono ancora musicisti che improvvisano, ma l’improvvisazione come pratica non è entrata». E tuttavia i ‘metodi’ hanno vinto, la ‘confusione’ tra i generi è cosa fatta, e anche nella scuole esiste l’improvvisazione.

L’ultimo scritto di Giuseppe Chiari porta la data del 31 dicembre 2006, ed è intitolato Io sono solo. L’ultimo paragrafo si intitola “MUSICA CIAO”. L’ultima frase recita: “il nostro presente non è definitivo”.

Ci mancheranno, Beppe, le emozioni che ci donasti strappando semplicemente un foglio, suonando un suono triste, uno solo, sulla tastiera di un magnifico pianoforte a coda.

Ci mancheranno le tue telefonate brevi, che andavano dritte al cuore delle questioni. La tua delicatezza, la tua generosità nel creare vortici. Le tue buste gialle piene di doni inaspettati.

Non ti interessò entrare nella storia della musica, ma sei entrato per sempre nella nostra.