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recensioni e segnalazioni

 

L'INVENZIONE DEL VIDEOCLIP: IL NUOVO LIBRO DI MICHELE BOVI
MICHELE BOVI, "DA CAROSONE A COSA NOSTRA: GLI ANTENATI DEL VIDEOCLIP", pagg. 184, Coniglio Editore.
I primi filmati musicali a colori, antenati del moderno videoclip, sono stati realizzati nel nostro Paese alla fine degli anni Cinquanta. Così i primi apparecchi a selezione per priuettarli: si chiamavano Cinebox e scatenarono una guerra commerciale tra Italia e Francia combattuta prima sul territorio europeo e successivamente su quello statunitense. Una vicenda che abbraccia un decennio e che ha visto protagonisti tutte le popstar internazionali degli anni Sessanta. (...) A ricostruire questa storia è Michele Bovi, giornalista e autore della Rai, che è riuscito a rintracciare tutti i protagonisti e i testimoni viventi che hanno avuto a che fare con il Cinebox e il suo diretto concorrente francese, lo Scopitone.
Nel volume, pubblicato da Coniglio Editore, in formato strenna con immagini inedite dei protagonisti di allora, compaiono il racconto e le testimonianze sull'avvento del Cinebox, disegnando con bella opportunità i contorni di una straordinaria invenzione italiana.
 

 

TONKUNSTLER di Girolamo De Simone. John Tilbury è un pianista anomalo. Potrei definirlo Tonkunstler, alla Andor Foldes. Cioè un "artista del suono", come pochissimi altri pianisti sopravvissuti alla mania dattilo-digitale del nostro secolo. Già nel lontano 1989 egli parlava di Morton Feldman disegnando una linea esegetica cristallina: Feldman - Cardew. Il secondo, Cornelius, scriveva delle trasparenti composizioni di Feldman riferendosi ad una luce fioca, alla quale i nostri occhi, abbagliati da canonici sfavillii, devono abituarsi prima di cogliere sfumature significative. Oggi forse non si ha nemmeno il tempo di ascoltare un cd normalizzato all'estremo sfruttando curve RMS (radice quadrata media dell'ampiezza); figuriamoci quando mai avremo la possibilità di abituare l'orecchio a cogliere sfumature che si susseguono in fasce di minima ampiezza, dal fruscio al cicaleggio degli oscillatori. Eppure, leggendo quello che scriveva Cornelius Cardew potremmo ricrederci, e per una volta osare un impiego del tempo volto alla ricerca di suoni più labili e tenui: "Per Feldman i suoni si riverberano all'infinito, senza mai perdersi completamente, la loro risonanza muta man mano che essi svaniscono o, piuttosto, essi non svaniscono ma recedono dal nostro orecchio, delicatamente, perché la delicatezza è irresistibile, poiché un'insidiosa invasione dei nostri sensi è più efficace di un attacco frontale. e i nostri orecchi, nello sforzo di afferrare la musica diventano più sensibili, più preparati a percepire il mondo sonoro nel quale ha sede la musica di Feldman". Suoni che indietreggiano! E la linea rossa passa per quello che invece Feldman a sua volta ricorda del geniale recensore: "Cornelius suonava la mia musica meravigliosamente e ha scritto cose bellissime a proposito delle mie prime opere". Una stringa di senso ulteriore va da John Cage a Morton Feldman, da questi a Cornelius Cardew (lo splendido nome echeggia racconti di E.T.A. Hoffmann), grande pianista, poi illustre divulgatore di musica nuova, strana, semplice ma ardita, pensata e suonata per/nelle fabbriche. La linea infine approda a John Tilbury. Per tutti, non in egual misura, la lontananza dalle accademie musicali, dalla musica 'ufficiale', da quelli che vengono definiti come "i mostruosi edifici seriali concepiti a Darmstadt durante gli anni Cinquanta". E giù strali contro un certo modo di suonare, quello politicamente corretto, quello che articola e fraseggia soltanto nel modo riconosciuto ed apprezzato nei Teatri Ufficiali. Nulla a che vedere, dunque, con le metodiche anomalie di Giuseppe Chiari! Quel fraseggio ufficiale legge e dà sensi univoci, riesce a decodificare soltanto Stockhausen e Boulez. Tilbury apprezza invece Cardew e Tudor, altro grande interprete "da polpastrello", grande reinventore della non-musica di Cage. Pronuncia una irrinunciabile verità: la necessità di intendere il "virtuosismo" come distante anni luce dal "meschino parapiglia digitale" (Barthes), come cosa che invece riguarda la "virtù di estrarre dal pianoforte sonorità straordinarie". Per questo Tilbury è un artista del suono, Tonkunstler. Si rivolge all'oriente, allo stesso modo degli altri grandi eroi dell'Eterna ghirlanda appena citata (la stringa Cage-Feldman...), e cita tecniche cinesi di 'vibrato', dove a vibrave veramente, aggiungo io, non è naturalmente la corda (cosa meccanicamente impossibile) ma l'interprete. Smettiamo dunque di suonare come scimmiette ammaestrate, e prendiamo a modello il detto taoista che ha ispirato i due "John": "La musica più grande ha le note più tenui".

 

Marco Ariano, Sensuali eresie, carne celeste. marcoariano.idra.it. Il disco raccoglie materiali tratti da laboratori, performance, spettacoli tenuti da Marco Ariano. L'idea è quella di sviluppare un 'teatro di eventi sonori', con un approccio di natura interdisciplinare e matrice multimediale. Le tracce si susseguono a partire da "Babele della spoliazione", "Polifonie dell'ascolto", fino alle tabule elettroniche di "Fioriture senza testo", comprovando una forte unità progettuale, grande originalità di scrittura, interessante sviluppo dinamico e protagonismo degli strumenti percussivi e della voce, che talora traccia 'mantra' episodici, su sfondi ed echi sempre vocali e quasi radiofonici. Il tentativo è quello di offrire vie di fuga dalla logica sistemica convenzionale, ricerca spesso premiata, come indica con opportunità, in una nota al libretto, Francesco Lazzari: "Con la sua musica Marco sugerisce che per un nuovo vedere occorre chiudere gli occhi e ascoltare suoni. Passare attraverso i suoni... Marco è maestro di un silenzio fatto di suoni. Maestro di un suono che sta al confine tra silenzio e parola". Una dimensione che si può apprezzare, aggiungeremo qui, soprattutto in quelle tessiture su sfondo, perché qualche volta gli eventi e le linee dei primi piani cedono alle tentazioni del dire, magari anche piacevolmente, ma strizzando un po' l'occhio agli sperimentalismi di una volta. Un lavoro, quindi, molto serio, ben condotto, riepilogativo. Ma che belli quei discorsi tra le pieghe: sarei curioso di ascoltare un missaggio che privilegi in piccole tracce quel magma plurimo e indistinto, infinitesimale, tormentato. (Girolamo De Simone)

Giovanni Guaccero, Musica per le montagne, Extensione. Un cd di musica descrittiva, funzionale, non lontana dalla border music che ci è più vicina, e più amiamo. Vi fanno capolino alcune modalità improvvisative, ed un riferimento che sento tra le tracce, soprattutto in certe 'sospensioni' delle frasi pianistiche, e che va a Roedelius (si ascolti Piano piano", pubblicato da Materiali Sonori). Ma musica funzionale a che? ed esiste poi una musica che non sia funzionale? ne dubito, naturalmente, ma qui intendo dire che il progetto di Giovanni Guaccero è condotto sulla montagna, funzionale e dedicato alla montagna. Dove il monte non è solo quello 'analogo' di Daumal, ma è quello reale, da scalare, con tutte le sue insidie, con tutte le prese di appoggio per spiccare salti reali. I quali poi diventano metaforici non appena si pensa alla terminologia di Foucalt, dove la presa d'appoggio serve per superare le 'resistenze' del sistema. Qui si tratta del sistema musica, che nel periodo sperimentalistico ha dato parecchio da soffrire, ed oggi riesce a procurare vertigini, stavolta estetiche, se solo si riesca a lasciarsi andare. Interessante dunque il disco, e sta bene sul piatto. Un limite, forse (che trovo quasi in tutta la produzione in lingua italiana) è nei testi che risultano sempre un po' scanditi, ostacolo che mi pare superato o superabile nelle tracce che usano altre lingue. (Girolamo De Simone)

Un Cd dedicato a Emanuele Barbella, di Pier Paolo De Martino ed Egidio Mastrominico. Negli studi più recenti sulla musica strumentale italiana tra Seicento e Settecento, va emergendo con maggiore evidenza la fisionomia di quella che si potrebbe definire una vera e propria "scuola" violinistica napoletana, rappresentata dai nomi di Gian Carlo Cailò, Pietro Marchitelli, Nicola Matteis, Angelo Ragazzi, Nicola Fiorenza, Michele Mascitti, i due Barbella. Musicisti la cui attività si svolse lungo più di un secolo, dagli anni settanta del Seicento alla fine del Settecento, e che appartengono a pieno titolo alla schiera di strumentisti-compositori italiani che con le loro ricerche segnarono importanti tappe nel progresso della tecnica violinistica, contribuendo a mantenere viva la musica strumentale in una civiltà sempre più dominata dagli sviluppi del melodramma. Una delle figure più interessanti di questo gruppo è quella di Emanuele Barbella, formatosi inizialmente con il padre Francesco, compositore e "maestro di strumenti a corda" al Conservatorio di S. Maria di Loreto. Dopo la morte prematura del padre, avvenuta nel 1733, Barbella proseguì la pratica del violino con Angelo Zago e Pasqualino Bini (alunno di Tartini), studiando anche composizione con Michele Caballone, Leonardo Leo e, forse, con Padre Martini a Bologna. Divenuto nel 1753 primo violino del teatro Nuovo di Napoli, tre anni più tardi Barbella entrò al servizio della Cappella Reale; a partire dal 1761 suonò nell'orchestra del teatro S. Carlo svolgendo anche attività d'insegnamento al Conservatorio di S. Onofrio. Charles Burney, che lo conobbe durante la sua permanenza a Napoli nell'ottobre 1770, ne parlò come della "creatura più buona che io abbia mai conosciuto", dotato di un carattere "dolce come il suono del suo violino". Gran parte della reputazione goduta da Barbella ai suoi tempi e nella posterità derivò proprio dalle opinioni di Burney, la cui la stima si accompagnava ad alcune riserve, soprattutto riguardo allo stile esecutivo: "Se fosse più brillante, se desse più voce al suo strumento, se il suo stile fosse più vario, il suo modo di suonare sarebbe irreprensibile, e forse superiore alla maggior parte dei violinisti europei"; in compenso il giudizio sul compositore era piuttosto favorevole: "Conosce bene la musica; le sue composizioni sono ricche di fantasia ed hanno una impronta per nulla sgradevole di inconsueta estrosità". Le opere di Barbella conobbero una certa diffusione europea se è vero che a Parigi e a Londra - i due maggiori centri di pubblicazione di musica da camera nel terzo quarto del secolo - furono edite tra il 1762 e il 1774 dieci sue raccolte di sonate, duo e trii. Queste composizioni, insieme ad altre rimaste manoscritte, rispondevano in buona parte agli orizzonti di attesa di un pubblico che chiedeva allora semplicità e piacevolezza; ma le occasionali sorprese armoniche e il ricorso a motivi popolareggianti - connotati nelle quali si può rinvenire forse l'influenza della scuola di Tartini da cui Barbella discendeva - portavano anche quella ventata di "inconsueta estrosità" notata da Burney, che poteva rappresentare un aspetto attraente per il pubblico più colto ed aggiornato. Maggior protettore ed estimatore di Barbella a Napoli fu in effetti un raffinato conoscitore come William Hamilton, ambasciatore inglese alla corte dei Borboni e probabile tramite con gli editori londinesi. A lui furono dedicati i Sei trii per due violini e violoncello, pubblicati a Londra da Welcker nel 1772, composizioni che ben rappresentano la fase evolutiva di un genere ampiamente coltivato in quello scorcio di secolo ( tra gli altri da Haydn e Boccherini ), proprio per quella che a noi oggi appare la sua natura di transizione. In questi trii di Barbella la prescrizione del violoncello in luogo di quella più ambigua del "basso", sembrerebbe inquadrarsi nel più vasto fenomeno che vedeva il genere andare ormai disancorandosi dalla Sonata a tre; ma la presenza dei numeri nella parte del violoncello rappresenta un dato di segno contrario, non giustificabile solo in base alla prassi editoriale che, per ovvie ragioni commerciali, continuava a mantenere le sigle numeriche del basso continuo anche quando non era veramente richiesto uno strumento a tastiera. Le distanze talvolta molto ampie tra le parti, le ricorrenti indicazioni di "tasto solo" corrispondenti a note ribattute del basso, il respiro quasi orchestrale di certe pagine, lasciano pensare che il clavicembalo qui sia ancora necessario. Fa da contraltare a questo aspetto conservativo, una scrittura che appare in linea con le tendenze prevalenti in quegli anni, sia per le certe scelte formali che per il respiro semplice e cantabile delle trame. La raccolta presenta un'evidente omogeneità scritturale: la distribuzione dei ruoli vede il primo violino protagonista, ora accompagnato dagli altri due strumenti, ora impegnato con loro in brevi dialoghi; la struttura è sempre in tre movimenti, con una successione costante rispetto alla quale fa eccezione soltanto il quinto trio (aperto da un larghetto, cui segue un ampio allegro centrale dal carattere brillante ed infine un sommesso andantino). Il movimento iniziale è sempre il più complesso, con un taglio bipartito ed un andamento armonico che conduce verso la dominante alla fine della prima sezione per poi tornare alla tonica in occasione della ripresa del tema di apertura; alla simmetria di questa struttura corrisponde un ritmo sintattico animato da ricorrenti irregolarità e asimmetrie. Più semplici e meno sorprendenti sono in genere gli altri due movimenti: quello centrale (larghetto o andantino), è la sede privilegiata di una cantabilità affettuosa e discreta; quello finale in forma di rondò, si snoda attraverso frasi brevi ed incisive. In tutte queste pagine Barbella declina le convenzioni dello stile galante con una vitalità che appare intrisa dello spirito dell'opera buffa napoletana e che tuttavia tende ad un'eufonia puramente strumentale: il passo corto delle invenzioni melodiche, la scarsissima presenza degli abbellimenti, gli occasionali effetti dinamici, le trovate umoristiche, si mantengono sempre in bilico sui confini tracciati dal tartiniano precetto del "buon gusto secondo natura".

 

FISCHING SONG, di Massimiliano Fuschetto. Comprendere una cultura è comprenderne il pensiero. Quando ho deciso di scrivere questo brano avevo la testa piena di letture, analisi e ascolti di quello che in genere chiamiamo musica africana ma, benché folgorato da quel capovolgimento di prospettive nella manipolazione del suono, capivo che rimanere ad un semplice livello informativo avrebbe fatto via via sfumare tutte quelle immagini che andavano addensandosi producendo nuove trame di significati. In quel periodo ero sottoposto anche all'azione di un' altra forza altrettanto potente, la straordinaria esperienza compositiva di Bartok : quel suo modo di procedere dal semplice al complesso, di studio applicato delle folk song. Presi perciò un semplice tema del popolo Ewe, una canzone che accompagnava il lavoro dei pescatori nelle lagune che nella sua essenzialità conteneva alcune fondamentali caratteristiche linguistiche dell'africa sub sahariana, e cominciai a trattarlo secondo processi compositivi tipicamente africani. Essendo questa un' idea in sè non certo nuova volli perciò pormi in una prospettiva personale,almeno sul modo in cui tali processi dovessero dar vita ad una forma. Il call and respons, i ritmi che si attraversano, il procedere per piccole unità che si sommano e altro ancora divennero gli strumenti per narrare la sorte di una breve cellula melodica di soli due suoni sottoposta a variazione continua sul terreno incerto di un conflitto prima latente poi sempre più manifesto tra gruppi timbrici differenti. In una prima versione scelsi un ensemble di legni, archi e una marimba che tuttavia si rivelarono poco efficaci nel rendere il dinamismo e le contrapposizioni che avevo immaginato per la Fishing Song . Quando Giulio Costanzo, che aveva ascoltato il brano nella sua veste originale, mi ha chiesto di una versione per il suo gruppo di percussioni ho preso l'occasione al volo e l'ho ripensato da capo a fondo. Sono ripartito dai timbri questa volta che hanno aperto nuove strade. Quello che era l' aspetto che più mi interessava, la frammentazione e il conflitto timbrico, è stato ben reso da una formazione di quattro tastiere (xilofono, due marimbe e vibrafono) e tre set di percussioni varie che, nell'equilibrio complessivo, riescono a rendere le asimmetrie manifeste e le simmetrie nascoste con dinamismo e leggerezza .

Prime esecuzioni del brano: 20 Ottobre 2004 Teatro Savoia Campobasso 23 Ottobre 2004 Rassegna "Compositori a Confronto" Reggio Emilia www.compositoriaconfronto.it

 

TRA PROGRESSIVE E FRONTIERA, LA MUSICA DI ARTURO STALTERI, di Girolamo De Simone. Arturo Stalteri è certamente uno dei più interessanti musicisti 'di frontiera'. Non a caso la sua musica sta conoscendo un periodo di nuovo interesse, con la ristampa per la BMG dei suoi lavori progressive, e l'uscita per la Materiali Sonori di un importante concept album interamente dedicato al "Signore degli anelli", la celebre saga di Tolkien. Non si tratta di un caso perché il percorso di Stalteri, improntato a coerenza e continuità a partire dagli anni Settanta, può spiegare come si sia arrivati alla attuale musica di frontiera, quale sia la sua evenienza futura. Una storia che può essere considerata come paradigmatica del travaso tra un genere musicale e un altro, raccontandoci contemporaneamente anche della complessa prospettiva culturale disegnata dall'avvento del melting pot, del crogiuolo tra differenti generi musicali. Arturo Stalteri nasce come musicista colto e pianista di razza, avendo studiato con Vincenzo Vitale, illustre e controverso caposcuola napoletano e con Aldo Ciccolini, noto per le sue incisioni di musica francese, e di composizioni del poliedrico ispiratore del gruppo dei sei Erik Satie. Un primo filo rosso emerge: Satie è generalmente considerato come l'inventore della "musica d'arredamento", madre della ambient, e non a caso Stalteri inciderà nel 2000 "coolAugustmoon" (pubblicandolo anche in Giappone nel 2001), un cd interamente dedicato a Brian Eno! Nonostante le origini colte, ben presto Stalteri si dedica alla musica rock, e per la precisione al genere progressivo, raggiungendo un vasto pubblico con il gruppo dei Pierrot Lunaire ("Pierrot Lunaire" e "Gudrun"). Una precisazione: è noto che il progressive tendesse a fondere la tradizione classica con il rock. Meno noto è che assumesse nel suo ampio ventre stilemi del jazz. Accade in "Nymphenburger" (East of Eden), una versione rock del celebre "Blue Rondo A la Turk" di Dave Brubeck. Con ciò il genere si mostra sintomatico per il discorso sulla contaminazione. Il progressive intendeva assimilare alcune forme della produzione colta e sinfonica trasmettendole ad un pubblico più vasto, che presumibilmente non avrebbe mai acquistato un disco di "classica". Quando i musicisti progressive si trovavavo di fronte a forme complicate, come la fuga, le risolvevano ricorrendo ad alcune 'semplificazioni'. Detto in modo più tecnico, all'apparire del controsoggetto preferivano procedere ad alcune ripetizioni anziché continuare ad elaborarlo con difficili contrappunti. Questo procedimento appare ad esempio nella "Valentyne Suite" dei Colosseum. Questo mostra con una certa evidenza quanto in nuce il progressive, come del resto già molta 'classica', contenesse i germi della Minimal Music. Curiosamente questo nesso tra la semplificazione delle forme della variazione e la nascita della musica minimale, non era stato mai rilevato prima d'ora. Già nei due dischi con i Pierrot esistono tracce della contaminazione che caratterizzava il genere progressive; specialmente "Gudrun" è davvero un lavoro sperimentale: per questo disco Walter Lefevre progettò apposta un oscillatore Waltsynt. Ma è in "André sulla luna" (1979) che Arturo raggiunge risultati stupefacenti. Si ascolti ad esempio "Verso la luna": c'è già una completa assimilazione del minimalismo. Il riferimento obbligatorio va al fondamentale lavoro di Philip Glass "Music With changing parts" del 1970. Ma "André sulla luna" rappresenta già una evoluzione del minimalismo di Glass. Una prova risiede nel lavoro di David Borden: nel 1978 elaborava dei contrappunti (pubblicati però solo nel 1990) che accentuano il radicalismo della ripetizione, ma ne evidenziano anche il limite. Stalteri introduce degli elementi melodici: è la strada poi intrapresa dal più recente Glass "operista". In "André sulla luna" c'è già quasi tutto: Debussy, il minimalismo, l'uso di alcuni effetti 'ambient'. E' naturale che Stalteri provasse in seguito a 'rileggere', a trascrivere i 'suoi' classici, ed ecco alcuni importanti dischi, "Flowers" (1995), dove compaiono Sakamoto, Glas, Corea; "Circles" (1998) che ripercorre antologicamente l'opera di Glass, e il già citato "coolAugustMoon", che trascrive e quasi reinventa il lavoro di Brian Eno. Contestualmente pubblica "Syriarise" (1992), un monografico con brani originali, e lavora al fianco di grandi star della musica leggera, acquisendo una virtù, quella della comunicazione, sconosciuta a molti altri compositori di provenienza colta. E' importante sottolineare che il percorso di Stalteri pur ricercando l'interfaccia con il pubblico, raramente cade nell'inganno della semplificazione eccessiva. Le 'invenzioni' improvvise, le deviazioni tipiche del progressive, vivificano tutti i suoi lavori, compreso il cd "Rings, il Decimo anello" appena uscito e dedicato alla saga di Tolkien. Non cade nella noia di ballate pianistiche facilitate in modo semplicistico. E ciò appare naturale dal momento che origine classica, percorso rock, lateralizzazione "progressive" ed approdo "di frontiera" è una stringa di senso che allude a un percorso ben radicato, che non ribalta la memoria. Ciò appare evidente collegandosi al sito della Materiali Sonori e scaricando la enorme discografica di Stalteri: decine e decine di collaborazioni: si cita solo quella de "L'Eliogabalo" (BMG) un disco dei magnifici Settanta con Claudio Lolli, Ron, Dalla, De Sio, in cui il pianista-compositore firma alcune tracce. Il percorso della semplificazione tout court, invece, che parte dalla musica colta sperimentale, quella con problemi di comunicazione e fruizione, lascia piuttosto a bocca asciutta tutti quelli che provengono da ascolti classici o dal rock d'autore, pur conquistando gli amatori delle colonne sonore e della musica radiogenica. Tutto ciò ci spinge a riflettere sul mondo dei consumi musicali, non impedendoci di rilevare che tale percorso intende la semplificazione come semplice sottrazione, e non come ricerca della successione accordale semplice ma geniale. Insomma, la musica di frontiera può trovare una delle sue radici nella musica progressiva meglio di quanto possa legittimarsi nella facilitazione estremizzata delle forme colte sperimentali, che vanno un eccesso all'altro. Queste ultime approdano solo oggi ad un rifacimento edulcorato di Glass, ma ad un Glass molto molto più noioso, perché privato della carica eversiva che ne caratterizzò le origini. Non pervengono purtroppo ad una sua assimilazione interna, per così dire, storicizzata o stratificata nel tempo, mediata dalle esperienze vive di quegli anni. In questo senso l'avventura di Stalteri è davvero paradigmatica. Una 'terza strada' fu invece percorsa dal geniale Luciano Cilio: una anomalia della musica rock, pervenuta alla colta d'avanguardia. Con "Il decimo anello" Stalteri approda ad un prodotto legato ai nomi di Jenni Sorrenti, Arlo Bigazzi, ad un disco multimediale in cui la memoria storica e l'origine del genere 'frontiera' sono largamente documentate, anche nelle tracce cd-rom che se ascoltate con attenzione parlano da sole, testimoniando ancora una volta l'unicità di un percorso compositivo (e pianistico, non dimentichiamolo!) di grande pregio ed originalità, in un panorama italiano piuttosto asfittico, dove gli altri autori del genere border, con l'eccezione di Sollima, sembrano in un momento di crisi di linguaggio.

 

SPLENDIDA SINTESI, di Girolamo De Simone. Si è tenuta a Napoli la preview di "Sintesi" - Festival internazionale di arti elettroniche, nella splendida cornice di Palazzo dello Spagnolo, sede della Fondazione Morra, nel quartiere vicereale dei Vergini a Napoli. Gli eventi hanno visto la luce grazie anche ad una partnership tra British Council di Dublino e Napoli, con il collettivo irlandese Fallt e la performance del londinese Janek Schaefer. A metà strada tra performance, installazione, opera residente, è stato inoltre possibile fruire per la prima volta in Italia di "Invisible Cities", opera a cura di Christopher Murphy: un percorso tra soundscapes alloggiati nelle mura della Fondazione Morra, con città invisibili ma meno effimere grazie all' impatto uditivo realizzato con cuffie e un panorama rumoristico disegnato da sound designer d'eccezione. Murphy ha dichiarato che è "quasi impossibile descrivere ogni pezzo e dargli il senso che merita", e tuttavia un tentativo in tal senso va compiuto, sorvolando con levità critica alcune delle installazioni. La sensazione che si ha percorrendo col solo udito gli alloggiamenti sonori è paragonabile all'ascolto degli "Angeli sopra Berlino": percezione molto differenziata di session dinamiche o statiche, col microfono che è lì fermo ad ascoltare o viene posto in movimento tra terre differenti, recependo suoni da Festival lontani o da canti di etnie differenti, poi miscelati in una session multitraccia che più o meno brutalmente ripropone un crogiuolo di immagini con amalgami multipli. Il nostro personale itinerario tra le città città, gli autori ed i significati ci ha condotti verso luoghi lontani, avendo appena sfiorato le stazioni di Napoli e Catania: Dehli, Raqs Media Collective (treni in avvicinamento); Lalisela di Chris Watson (voci etniche); Moscow di Sergey Tishkov (tema del viaggio); Beijing, Beijing sound unit (voci etniche), Brisbane, Lawrence English (rumori tecnologici); Londra, Janek Schaefer (suoni intimistici); Marrakesh di Gregory Cowley (mix di voci etniche e rumori); New York di Taylor Deupree, con brusii, fruscii in crescendo, bruscamente interrotti, registrazioni al Brooklyn's Prospect Park; Lima (Peru 2001) di Jonathan Segel (etnico minimalista); Washington, Richard Chartier con suoni campionati all'interno di gallerie d'arte e musei; Los Angeles, Aklra Rabelais, con un microfono fisso su un cartello di Holliwood per segnalarne l' "ironica desolazione". La prewiev di Sintesi si è conclusa, in attesa del vero e proprio Festival che si terrà a Dicembre, incontrando l'artista web Miltos Manetas, impegnato, tra l'altro, in una tavola rotonda che ha ospitato anche Alessandro Ludovico, l'autore di "Suoni futuri digitali", testo sull'incontro tra musica e universo della moltiplicazione (un discorso che parte da Benjamin). Il presupposto comune è quello dell'abbandono della nozione di copyright, in un dialogo a distanza con il No Copyright di Raf Valvola Scelsi e il Net Strike / Strano Network di Tommaso Tozzi. Miltos Maneras ha mostrato in proiezioni dal computer le schermate di Net Art ed ha illustrato la sua estetica. La sala si è riempita di nuove definizioni: lo spirito "Telic" (dal greco, scopo o fine) che pur essendo supercreativo "può essere sgraziato come un computer" e lo spirito "Neen", che è il piccolo fratello matto di Telic. la star Neen fa suo il sogno, che è quello di diventare una speciale icona, e di proiettare questa icona nel web. Lo spazio Web è l'unico veramente vuoto, non esattamente come quello delle gallerie che ospitano opere d'arte moderna, fortemente stigmatizzate da Manetas, e definite come "un ammasso di spazzatura". Le icone della Net art si pongono come giochi, forse possibili opere del futuro, in cui la nozione di 'proprietà' fa capolino soltanto per ciò che riguarda la registrazione del dominio. Gli incontri di "Sintesi" hanno registrato grande afflusso di pubblico e interesse dinamico per le proiezioni.