FINESTRE SUL MONDO

 

 

 

Purezza e mescolanze

 

            Come si può definire la «world music»? È semplicamente musica che proviene da ogni parte del mondo, o  piuttosto un genere con un linguaggio proprio, che auspica una società dalle molteplici culture ed etnie? Ancor oggi vige una certa confusione in proposito, generata anche dall’ ambiguità e dalla distanza d’intenti tra ciascuna produzione, che ogni paese adegua all’ immagine da esportare.

            Ad esempio, l’Africa appare genericamente più incline alle contaminazioni, specie con i musicisti di Mali, Senegal e Gambia. Salif Keita,  da nobile appartenente alla più antica famiglia Mali è sceso volontariamente di casta per dedicarsi all’arte, e da Soro in poi sperimenta l’elettronica e il rock contro la staticità delle tradizioni; Manu Dibango è noto per aver incontrato a più riprese il funk, ma si era formato prevalentemente in Francia, e solo in seguito aveva ottenuto riconoscimenti in Camerun: è sua la frase «ho orrore della ripetizione, non si può continuare all’infinito a ripetere la lezione degli antenati»; Youssou N’Dour è conosciuto per i suoi trascorsi con Peter Gabriel, l’estroso ex-Genesis  oggi anche produttore[1]; Foday Musa Suso e Toure Kunda hanno incrociato le loro strade con Herbie Hancock, il pianista jazz, e con Bill Laswell, che dal funk sperimentale di Baselines[2] diventa tra i più agguerriti produttori discografici.

            Ma altri musicisti, appartenenti ai griots[3] restano vicini alla visione tradizionale, magari legata ad uno strumento particolare: è il caso di Lamine Konté, virtuoso di kora[4], del quale la Arion[5] presenta due monografici. Lamine è nato a Kolda, ma ha studiato alla scuola delle arti di Dakar, ed appartiene ad una delle più antiche caste di griots; è pertanto un «figlio d’arte», come diremmo qui. Così, la sua musica è di una straordinaria dolcezza e spontaneità, non priva di caratteri personali: «quando suono vorrei che la gente mi riconoscesse». La ricerca di questo musicista è volta soprattutto al massimo sfruttamento delle ventuno corde della kora, che la fa assomigliare all’arpa elettrificata usata tanto nella new age: ma non ci si illuda, Lamine cerca di attualizzare ritmi e suoni attraverso una evoluzione interiore che non preclude aperture, ma risulta pur sempre legata a un costume specifico. Specie il secondo compact appare godibile negli assolo della kora, ed  è più scontato nei brani cantati perché l’accompagnamento indulge a un linguaggio  incline al  country & western.

 

 

Percussioni d’Africa

 

            Generalmente, l’attenzione degli occidentali si focalizza sulle varietà di percussioni ‘nere’, e sulla complessità dei ritmi incrociati, ed ecco una efflorescenza di compact: Les génies noirs de Douala [6] prende il nome da un gruppo che ha lavorato, oltre che con Myriam Makeba e Manu Dibango anche con i nostri Tullio De Piscopo e Tony Esposito. Il bel disco offre una panoramica sulle danze caratteristiche del Camerun, come ad esempio la Tchokoto, per la nascita del primogenito, o il famosissimo Soul Makossa, danza moderna del popolo Duala. Notevole l’intento di unire le diverse etnie di un paese che rappresenta un po’ l’Africa nella sua interezza, con tutta la complessa serie di implicazioni politiche: vere e proprie mine vaganti innescate nel corso del colonialismo sono poi esplose a programma, mettendo l’una contro l’altra  forze altrimenti naturalmente coese.

            Molto più attento ad aprire strade di conoscenza interiore attraverso l’incantamento e la malia del ritmo è Mustapha Tettey Addy, originario del Ghana: «un maestro di tamburo deve mostrarsi capace di captare l’energia degli altri, e di rendergliela nuovamente attraverso la sorpresa della loro stessa riscoperta». E in effetti lo strumento sembra produrre vibrazioni  che prendono alla bocca dello stomaco: il rilascio del battere ha una flessibilità tale da essere estremamente comunicativo.  Il ritmo, nei lunghi assolo, assume forme cangianti, e mantiene desta e attiva l’attenzione del fruitore. Non mancano gli esperimenti: affascinantissimo, e quasi orientale, il suono di Gongs Ga, dove tubi di metallo sono percossi con una bacchetta di legno duro[7].

            Sempre nella scia della tradizione, con uno scivolamento folclorico di troppo, è la musica dei Batimbo, enclave familiare trasformatasi in gruppo di maitres-tambours du Burundi: un compact che li concerne[8] riproduce uno dei loro spettacoli, con tanto di entrata in scena, ma non fa giustizia di quello che deve essere stato l’effetto visivo e scenografico dell’impianto complessivo; le voci si percepiscono troppo in lontananza.

            Non pochi dischi sono dedicati alle percussioni africane, alcuni antologici, altri monografici. Tra i primi c’è sicuramente Balafon et tambours d’Afrique, in due volumi[9], con una silloge della musica percussiva di Camerun, Guinea, Senegal, Tanzania, Togo. Qui le percussioni sono veramente nude, senza orpelli, e presentate nella loro ricchezza ritmica, per la maggior parte senza accompagnamenti cantati. Notevole anche la collezione di strumenti impiegati, dal balafon alle maracas e ai sonagli. Un secondo volume è dedicato a Koko du Burkina Faso;  presenta sue  composizioni originali che includono spesso anche il canto, è godibile ed estroverso, ma la lunghezza dei brani risulta eccessiva per l’insistenza delle percussioni. Queste si susseguono in modo lineare, anche se -come in tutta la musica africana- si sovrappongono ritmi d’ogni tipo. Le permutazioni interne sono poche, e non facilmente percepibili per gli occidentali. Anche Percussions D’Afrique presenta  quattro brani raccolti in occasione di cerimonie religiose o civili, ma risulta quasi insostenibile per lunghezza  (il brano più prolisso dura 32’30”).

            Al secondo gruppo monografico appartengono Les tambours de Gorée e Percussions Mandingues [10], dedicati rispettivamente all’orchestra africana Djembé del Senegal ed al solista Adama Dramé, naturalmente ancora un griots. L’aspetto tecnico è qui notevolmente accentuato, ed il tamburo diventa un microcosmo con un suo centro ed una sua forza di gravità: l’abilità dello strumentista risiede nell’indirizzare i colpi in precise zone  della membrana, improvvisando e mescolando ritmi senza annoiare. Tutti traditional i brani raccolti invece nel disco dell’orchestra Djembé, proposti alternando canto e percussioni e sole percussioni; se si eccettua la prima lunga track (11’38”), le altre sono sufficientemente varie e più che sopportabili.

            A Nigeria, Etiopia e Camerun sono dedicati Nomades du Desert, Musiques Traditionnelles d’Etuiopie e Cameroun, Musique des Pygmées Baka [11]. A causa del loro itinerare, i nomadi hanno conservato un’antica tradizione vocale ipnotica, malinconica, solitaria: melodie che suggeriscono l’attraversamento, una metafora dell’andare che si materializza per pitch ricchi d’infratoni. I canti e le danze sacre dell’Etiopa rappresentano bene una musica più ricca, preziosa ed interetnica. Ancora una strumentazione prevalentemente percussiva individua la musica dei Pigmei Baka: gli strumenti melodici vengono sostituiti con gioviali cori a voci multiple ai quali si alternano solisti che procedono ad affascinanti permutazioni tematiche, spesso di una vocalità che si approssima al grido modulato.

 

 

L’India, o della densità del suono

 

            L’India è più lineare dell’Africa, la sua produzione più riconoscibile: si ascolti, ad esempio, Raga Multani [12],  con un’orchestra di sarangi, il più antico strumento ad arco di questo paese, tabla[13], shenhai (fiato) ed harmonium; la massima variazione ai canoni classici è nella diversa disposizione di alcune note; Ustad Munir Khan fornisce variazioni emotive, risulta riconoscibile per la profondità  e l’interna risonanza di raga pomeridiani. Ma straordinaria è la concentrazione, la densità di questi suoni che sembrano provenire da un metaforico altrove della coscienza, un luogo non accessibile ma denso di linee, quelle stesse linee definite da Michaux come un limite tra esterno e interno. Il sarangi  crea un effetto di bordone, con le corde libere,  come una cornamusa lanciata sull’orlo dell’infinito, lo shenhai intreccia con il sarangi (con le corde principali) variazioni tematiche dagli intervalli armonici impercettibili, una sorta di urlo mistico.

            Più consueta, ritmica, sofisticata e virtuosa (al modo di noi occidentali) l’interpretazione di Pramod Kumar dei raga[14]. La scansione perfetta di suoni in rapida successione tradisce l’origine da percussionista, e l’attacco deciso dimostra una sicurezza tecnica dovuta forse all’appartenenza ad una famiglia di musicisti. La strada prescelta è inequivocabilmente ‘esterna’, tant’è che Kumar viene considerato come l’erede  di Ravi Shankar, del quale è stato tra i più anziani allievi. Ma Shankar resta forse più aperto agli esperimenti creativi con l’occidente (si ricordi la sua collaborazione con Philip Glass). Una minore fluidità, una certa spigolosità, la ‘sforatura’ di certi suoni (è un eccesso in relazione alla portata emotiva e  musicale, non tecnica) ci fanno così ancora prediligere il maestro. 

            Alla musica folk dell’India del nord si consacra l’omonimo disco per la serie Unesco / Auvides[15]: in rapida successione i canti per la stagione delle piogge, quello per l’avvento della primavera, il devozionale musulmano Qawali, composizioni per flauto e mandar con Johan e Tibha Pahan, o per l’ensemble di Lahura Matho. Non ci si aspetti da questo compact altezze trascendentali: il territorio è prevalentemente folclorico.

 

 

Il ghetto di Varsavia

 

            L’esemplare contrapposizione tra la world africana e quella indiana mostra come possa essere estremamente difficile distinguere, all’interno della produzione musicale di un paese, l’impulso etnico e quello globale. Un’altra scuola di pensiero inserisce la world in una costellazione che ha come punte d’iceberg il rock d’avanguardia, l’etnopop, la contemporanea e molte delle ‘new’  (acoustic, beat, eccetera), e come fulcro l’attenzione per quelle nuove sonorità  poggiate sulla fusione delle tecniche. Ha certamente contato, nella formazione di un linguaggio profondamente contaminato, l’evoluzione delle singole espressioni pop di ciascun paese: molte delle voci più  originali hanno cominciato ad allargare i confini delle loro produzioni folcloriche attraverso incroci con artisti della più svariata provenienza. Questa pratica, nel jazz, ha finito con l’organizzare le varianti secondo scanzioni formali più o meno collegate al genere. Il pop, invece, ha mantenuto le devianze per quel che erano: vere e proprie ventate di ‘nuovo’ che investivano  ritmi, timbri, melodie. Una grande vitalità, legata ad esempio alla produzione della cosiddetta ‘afro’, già qualche anno fa non appariva più mascherabile o incanalabile in standards, ma andava a collocarsi in un filone proprio, talvolta più etnico, talaltra incastonato al rock, ed oggi addirittura legato al rap.

            Quelli che hanno preferito guardare alle produzioni più tipicamente tradizionali, a quelle scevre di sonorità etichettate come occidentali, hanno biasimato i musicisti e le opere che invece si lasciavano sedurre dal west sound, dalle pratiche strumentali e stilistiche  più facilmente riconoscibili da noi occidentali. Youssou N’Dour si è fatto portavoce del fastidio  di questi artisti, parlando di una ghettizzazione arguta,  furba e molto articolata.  Individuare le differenze tra generi nella semplice provenienza geografica, prediligere il sound tradizionale a quello moderno, di fatto inibisce la «possibilità di un’espressione non compromessa» e rende irrealizzabile uno sviluppo che i musicisti africani ritengono oggi necessario e improrogabile.  Che si parli di afro music, che si allarghi la qualifica alla world music, sempre di ghetto si tratterebbe: confini eretti a difesa di un consumo e di un mercato già di per sé saturi, o, il che è peggio, a difesa della purezza dei linguaggi. Una musica che resta identificabile ripropone in eterno il problema della differenza, che qui è  differenza di valore tra espressioni auree ed alte (quelle occidentali) ed espressioni viscerali e incolte, in fondo di ‘colore’ locale. Fino a che le gerarchie non diventeranno insiemi di quantità che evitino giudizi di valore i guai non diminuiranno.

            E con queste consapevolezze si ascolta con particolare commozione il lavoro di Sarah Gorby, premiato come documento storico dalla Accademia Charles Cros, Les Inoubliables chants du Ghetto[16], frutto della ricerca sui musicisti morti nei ghetti durante gli anni della Grande Tragedia: diversi confini, comuni sofferenze e atrocità.

            Il timbro vocale della Gorby è certamente molto caratterizzato: incisivo, doloroso, ironico, e  a tratti beffardo (ricorda un po’ quello di Lotte Lenya). L’interprete riesce a condensare, con agogiche oggi irreperibili altrove, il canto di rassegnazione e di protesta di chi ha subito il più grave torto alla dignità personale e umana.

 

 

Etnica o contaminata?

 

            Così, la world presenta da un lato una musica legata al folclore e più attenta alle origini, alla «nobiltà ed antichità» dei generi tradizionali (come riferisce un famoso cantante di Maqam), dall’altra interpreti che hanno coscienza delle continue permutazioni del passato, dei prestiti che già gli antichi stili presentavano, lanciandosi senza indugi nella sperimentazione di forme evolute da quei suoni tradizionali. Tra questi, i ‘progressisti’ cercano un territorio comune ai diversi linguaggi, intuiscono gli stilemi condivisibili, vanno infine verso il Global Village. In tutti e tre i casi ci troveremo in presenza di varianti della world music: etnica, contaminata, globale (o fusion), se prevalgono spinte che valorizzano i percorsi interni, quelli esterni o quelli comuni a tutti.

            Nella world etnica (la cui etimologia greca richiama l’idea di ‘moltitudine’) rientrano alcune delle registrazioni di Gérard Krémer, che «raccoglie in diretta suoni e riflessi» delle musiche popolari più legate alla tradizione. Dall’Algeria deriva la musica Chaabi, sorta di poema ritmato, e la Zorna, altro genere utilizzato in cerimonie religiose o laiche di particolare importanza[17]; dall’Irlanda esporta ballate, danze, inni di brevissima durata per Irish harp, o arpa celtica, flauto e banjo, naturalmente abbastanza sconnesse dal presente[18]; suoni coloriti, naturalmente, da Cuba, con alcuni dei brani più eseguiti nei carnevali: Salsa cubana, El Carabli, La Timba, Guantanamera[19].

            Alcuni esempi di world contaminata sono Celtic Odyssey, The Road North, New Land, Alma del Sur. Il primo[20] è un viaggio  metaforico attraverso la musica contemporanea celtica, e si pensa immediatamente alla Whindam Hill  (come non riferirsi ad altri solstizi d’inverno?), anche perché si tratta di una compilation di artisti diversi. Convince il dinamismo di The Butterfly, un racconto estremamente delicato disegnato da Orison, e tratto dall’album Celtic and Contemporary Instrumental Music[21]. Più energico Dònal Agus, dove Altan rifà il lifting a un traditional. Assoli d’arco, con ambientazione, per Calliope House e Trip to Skye, e un suono fortemente emotivo (alla Balanescu, per intenderci) per  Are Ye Sleeping, Maggie? , dove Alasdier Fraser dà sfogo ad una vena motivica che fa tesoro anche della lezione classica. In Tribute to Peadar  Dònal Lunny sembra citare i  viziosi circoli armonici e tematici di Oldfield. Meno godibili i brani anche vocali, forse troppo legati a fonemi individuabili per parlare al resto del mondo. Nello stile della ballata The York Reel/Dancing Feet, che porta alla conclusione un disco vario e sicuramente in grado di offrire una bella panoramica sulla musica celtica rivisitata nello stile globale. Sempre d’origine celtica le sensazioni e certi nuclei tematici suggeriti dal violinista scozzese Alasdair e dal pianista Paul Machlis in The Road North[22]. L’unico traditional ci pare essere la Melodia Gaelica, dove con struggente lirismo s’afferma l’amore per una musica senza confini di tempo. Il resto delle tracks è perlopiù bipartito, fondendo insieme melodie dei due artisti, oppure presentando collaborazioni incrociate con altri. È il caso di Bennachie Sunrise/Willie’s Trip to Toronto, scritto da Machlis ed Holland[23], introdotto da un assolo d’arco non privo di piccoli aggiustamenti infratonici, e poi il via a una  ballata irlandese con chitarra e violino. Calliope House / The Cowboy Jig è invece frutto di contaminazione tra un brano di Richardson e un traditional: alla lunga questa musica può stancare, specie quando lo sviluppo è eccessivo. Da segnalare la presenza di musicisti della Windham Hill: Billy Oskay, Michael O’Domhnaill e Tommy Hayes.

            Spostandoci in Sud America, ma restando sempre nell’ambito della world contaminata, ecco New Land[24], dell’argentino Bernardo Rubaja, la cui ambientazione è però più vicina alle atmosfere rilassate di certa new age che ai ritmi sudamericani: la sua musica scorre come olio, e starebbe assai bene nelle compilation della Grp. Alma del Sur [25] ha certamente la pelle più scura: a Rubaja si affiancano il chitarrista Nando Lauria, l’arpista (suona un’arpa paraguayana) Roberto Perera, Carlos Guedos, Junior Hamrich, Matthew Montfort degli Ancient Future e tanti altri: ecco allora venir fuori quello che ci aspetteremmo da una silloge dedicata a (emergente da) quelle zone: dalla marcetta ammorbidita e assai gustosa di The Hill of Seven Colors dello stesso Rubaja all’acquatile New Amazon, con percussioni e voci che s’innestano su sciacquettii d’ogni genere. Bella la chitarra in Las Marianas del gruppo Gurrufìo, evidentemente ispirato alla tradizione venezuelana, effettivamente «spontanea, improvvisata, inaspettata».

            In dialetto occitano e provenzale le canzoni di Riccardo Tesi e Patrick Vaillant in Véranda e Anita Anita [26]. Le songs sono prevalentemente brani originali di Tesi, ma non mancano arrangiamenti da traditional. Se qui è presente una certa contaminazione, il movimento mi pare essere più quello di ottimi artisti che guardano al repertorio dialettale e locale piuttosto che quello della ricerca che parte dalla terra e lambisce infine perimetri lontani. Pochi gli interventi soltanto strumentali, dove forse si osa di più.

            Uno specialista di tango il bandoneista Olivier Manoury, che con Michael Nick, Isabelle D’Auzac ed Enrique Pascual, indulge al jazz ben più di quanto non facciano Astor Piazzolla ed il suo naturale erede Richard Galliano, forse anche con minore originalità: ma il suo Tangoneon[27] resta gradevole, anche perché offre una panoramica non solo sul tango, ma anche sulla candombe e sulla milonga. Particolarmente dolce e struggente (non quanto il quintetto di Piazzolla), Llovisna di Enrique Pascual, e l’espressiva Milongue di Olivier Manoury.

 

 

La world globale

 

            Alla world globale o fusion possono ascriversi, ad esempio, gli Ancient Future, che Piero Scaruffi collega ai Do’A di Randy Armstrong e Ken LaRoche. A Quiet Fire (Narada Lotus 1012), la chitarra di Alex De Grassi, noto ai cultori della new age, e il sound complessivo, danno una parvenza  un po’ più commerciale rispetto ai  lavori precedenti[28]. Così l’effluvio un po’ sudamericano, un po’ indiano, un po’ new age di Caged Lion Escapes di  Matthew Montfort travasa di traccia in traccia fino alla dolcezza incantatoria di Hillside View di Randy Mead, con le cascate d’arpa celtica di David Michael, ed alle suggestioni rinascimentali di Candlelight. L’impatto iniziale di Dreamchaser [29] mescola chitarra elettrica e sitar, tampura e percussioni africane, con la prevalenza di un suono indiano in Edge of a Memory ed africano in Chant of the C Schell, con tanto di cori in stile. Ma le suggestioni restano superficiali, non sempre fuse in modo omogeneo, ed un po’ ripetitive. In Andrean Dream  l’imprimatur è smaccatamente cileno, e così via, fino al brano migliore di un album tutto sommato prescindibile: l’Ode to Ajanta di Ian Dogole, orientaleggiante.

            World whithout walls [30] ha già un programma fin dal titolo: mondo senza mura, senza confini. Lakshmi Rocks Me  è la prima dirompente traccia, sicuramente arricchita dalla partecipazione di Zakir Hussain alla tabla ed alla kanijra. Stucchevoli invece le sintetizzazioni di April Air, veramente da demo-song. Un’atmosfera alla Vollenweider permea nel bene e nel male anche i brani successivi, con punte di Turchia ed India qui e là. I due brani Alap  e Indra’s Net, quasi introduzione e sviluppo, mi sembrano straordinariamente riusciti, e confermano a chi abbia conosciuto le musiche di Luciano Cilio quanto questo artista abbia preconizzato le sorti della musica futura. Gopi Song, col piano di Dough McKeehan e ancora  Zakir alla tabla, mezzo Clayderman, mezzo Kitaro,  chiude un compact più che soddisfacente.

            Il tipico attacco dell’arpa da tavolo giapponese gu zeng di Zhao Hui lancia Asian Future[31], e senza pause subentra il ritmo incalzante e disinibito di Bookenka, con un mix di jazz ed Asia: una pietra miliare per gli Ancient Future. Mezgoof, di Ian Dogole, ricorda la musica del Pakistan, con percussioni e sintetizzazioni che si muovono su un bordone pieno e comunicativo: un movimento straordinario che concilia le esigenze interiori e convince per la varietà e l’articolazione del percorso. Sumbatico ha in corpo molto più jazz che nel passato, Ja Nam si affaccia addirittura sulla musica vietnamita con l’uso del Dàn Bàu[32] fondendosi ad un ritmo reggae. L’affermazione di questa musica è apodittica; gli Ancient Future più che sperimentare affermano con sicurezza e leggerezza la commistione. E il disco diventa imperdibile.

            Altro esponente rilevante è Michael Pluznick, compagno di Jim Chappell in Saturday’s Rapsody [33], col primo cd solistico Where the Rain is Born[34]. Le percussioni soffici si intrecciano ad un tessuto massimale alla Borden in Savannah Dance (è il computer di Peter Scaturro a creare il meraviglioso amalgama). Tanta Africa interiore è mutuata da Rites of Passage: perché non confrontare le sintonie e simpatie con Mustapha Tettey Addy, anche per l’assolo di The City’s Reflectio ?

            Introspettivo anche quando pianamente ritmico, Pluznick ci convince pure in brani radiofonici come Desert Crossing, introdotto da un delicato gioco di percussioni ed effetti speciali. Da Time caravan si affaccia Brian Eno, e da Big Foot un morbido jazz sound. La voce di Maria Rodriquez fa da background alla title-track, che anche qui chiude il disco.

            Acqua che scorre e voci ‘nere’ danno il via a Cradle of the Sun[35]: una piccola introduzione traditional (1’20”) cementata con l’avvio di un basso ed una chitarra elettrica, un pizzico di rock e tanta Avana: una musica già più ‘fuori’, meno ripiegata su di sé, e quindi anche fluida, qualche volta non omogenea: stacchi multipli dividono le tracks, in molti brani è presente la voce, l’ambientazione è sicuramente vicina alla new age, se non fosse per la solida presenza del basso: reminescenza anche questa di tanta musica africana. Anche qui  fa bella mostra di sé il computer di Peter Scaturro, specie nei nove minuti e oltre di Guardians Of Nature. Cosa che chiarisce abbastanza bene cosa si può intendere per rivisitazione della world etnica.

            Ancora più aperto e solare Rhithm Harvest [36], come indica il titolo: una efflorescenza di ritmi da Haiti, Kongo, Senegal, Cuba, Mozanbico, e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una parentesi o di una nuova vena per Pluznick? Fatto sta che, a parte l’argento vivo che questa musica riesce ad incollare sull’ascoltatore, viene da pensare ad un passo da granchio, un ritorno alle origini dei ritmi diversi. Questo ci fa preferire sicuramente il percussionista un po’ introverso e decisamente pensoso di Where the Rain is Born.

            Pierre Jean Croset, in Harmoniques du temps Overtones of all times [37], propone a sua volta una reinvenzione creativa ed interiorizzata dei suoni della Cina antica, esercitando sulla lira armonica ipnotizzanti variazioni melodiche che paiono miracolose per l’esiguità dello strumento. Quest’ultimo, con diciotto corde fissate su un pezzo di cristallo, trasmette vibrazioni straordinarie, trasparenti come le ali dell’Hetaera Esmeralda.

            Originale e creativo l’assortimento proposto da Mikhail Alperin in Prayer[38] con Arkady Shilkloper e Sergey Starostin. Il pianista russo presenta alcune delle sue composizioni più intense, non disdegnando d’usare topoi melodici russi incastonati sul particolarissimo canto gutturale mongolo. In Prayer Part 1  si sprofonda in luoghi lontanissimi per cultura e densità spirituale con la leggerezza tipica della world globale, ovvero senza eccessivi appesantimenti etnici. Straordinario l’accostamento tra pianismo classico, jazz, armonie ‘nuova era’ ed elementi etnici, di Talk for Trio: raramente si è ascoltata una  commistione di tale omogeneità, capace di suggerire istantaneamente un climax tra voce e pianoforte, talvolta ironico, talaltra giocoso, sempre teso ad una comunicazione forte, alla faccia della crisi della musica e della morte dell’arte. Un lavoro bellissimo, pieno di sorprese.

 

 

Percorsi trasversali: etnica mistica o religiosa

 

            Più percorsi trasversali sono possibili nell’ambito della world. Uno, particolarmente affascinante, ripercorre l’Asia e parte dell’Africa alla ricerca di nessi comuni o di significative differenze tra religioni.

            Partiamo dall’estrema appendice subcontinentale: lo Sri Lanka. In Musiques Rituelles et religieuses [39] sono raccolte registrazioni effettuate nel 1979 da una spedizione etnomusicologica svolta in collaborazione con de Silva Kulatillake. Il fatto che il Ceylan sia posto sotto il subcontinente indiano non impedisce che un gran numero di religioni vi abbia attecchito nel tempo. Tracce dei culti fallici e dei riti di fertilità si mescolano con il culto brahmanico. Nel tempo ci si è rivolti ai démoni vedici e a credenze induiste, fino all’arrivo dei calvinisti olandesi e dei gesuiti portoghesi. La musica, come ad esempio nella lunga cerimonia del pirit, si muove su un bordone di percussioni molto poderose, e due o quattro esecutori giocano antifonalmente anche con modulazioni microtonali.

            In India del Sud troviamo la ricca raccolta dei veda, che come è noto ospita in differenti sezioni inni dedicati a divinità indiane, alla grande origine del tutto[40], a formule magiche e preghiere. Nel Rigveda, o veda delle melodie, sono raccolte strofe dedicate al culto sacrificale. In Musiques Rituelles et Théatre du Kerala [41] vi sono esempi di insiemi cerimoniali, recitazioni di veda, mescolati ad esempi di teatro rituale, come quello danzato sanscrito Kutiyattam. Si tratta di un disco molto evocativo, che presenta differenti stili espressivi della musica carnatica tipica dell’India del Sud, dai suoni prolungati e ipnotici della vina alle recitazioni ritmiche, sorta di ‘salmodia diretta’.

            Musique traditionnelle de danse Odissi [42] presenta musica di danze sacre e repertori del teatro tradizionale della provincia di Orissa, situata sulla costa est dell’India centrale e al centro di scambi interculturali,  di fusioni etniche e stilistiche. L’incipit è costituito da un saluto al Dio Ganesha, accompagnato da vina, cimbali e flauti di canna. Un solista vi traccia melodie con impulsi ritmici particolari, ripetuti con varianti, con la bellissima Moksha Nata, una preghiera a Shakti, la Madre Divina, che chiude il discorso.

            La musica dell’India del Nord, pur adottando la medesima terminologia per i raga, è notevolmente differente da quella carnatica del Sud, e si caratterizza come musica indostana. Sempre in Musique Populaire de l’Inde du Nord [43], assieme ad esempi strumentali folclorici per tamburo solo e flauto e mandar, ci sono tracce di canti devozionali musulmani Dhun, canti sufi eseguiti dal gruppo di cantori del santuario di Nizamuddin (nel Corano, l’idea dell’Onnipresenza di Allah è frequente), e i canti religiosi Bhajana.

            Avvicinandosi al Tibet, ecco Chants et Danses du Népal[44], canzoni di lavoro della casta dei musicisti-cantori Gainés, ma che offre anche l’occasione per riascoltare il sarangi[45].

            A metà strada tra India e Nepal  si situano diversi santuari tibetani. Preghiere del mattino dei monaci  di Bodh Gaya (India), percussioni da Swayambunath (Nepal), rituali della sera da Dharamsala (sempre India), sono rintracciabili in Musique sacrée des Moins Tibétains[46]. È interessante la registrazione delle lunghe trombe tibetane, che lanciano messaggi lontano nello spazio, ma lasciano vibrare il corpo di chi le suona. Le preghiere dei vari rituali accoppiano non solo i suoni bassi dei Tuva o di altri popoli della Mongolia, ma anche voci nasali abbastanza inquietanti. Con Tibet: Traditions rituelles des Bonpos[47] ci si sposta invece nella zona sotto l’Himalaia, a Nord-Ovest dell’India. Qui si ascoltano i suoni densi e profondi dei monaci, nella versione dei Bonpos che rinnova e perpetua tradizioni a rischio di scomparsa. Diverse cerimonie, rituali, musiche processionali, sono in Tibet: Musiques Sacrées[48], registrate tutte a Nord-Est del Nepal, nella provincia di Khumbu.

            La Russia presenta una varietà sconfinata di tradizioni e stili. In Chants Des Peuples De Russie[49] possono reperirsi registrazioni in grado di offrire una panoramica sul folclore (canti nuziali, lamentazioni funebri, etc.) di zone differenti, dalla regione di Tula a quella tartara. In Russian Orthodox Chants[50] può godersi il suono di raccolta dei fedeli delle campane del monastero Novodevitchi  mescolato a canti della liturgia divina  in cui solisti si alternano al coro, ed esempi di canoni e litanie. Il disco si chiude circolarmente, col suono delle campane che ritorna.

            Spostandoci ancora più a nord, si arriva al buddismo lamaista della Mongolia. Registrazioni rarissime ed estremamente interessanti sono in Mongolie, Chamanes et lamas[51]. Si va dalle pratiche officiali legate al buddismo dei lama a quelle misteriche degli sciamani, con veri e propri ‘viaggi’ condotti da nenie accompagnate, imitazioni di animali magici. Un primo sciamano si chiama Darqad, e col suo canto accompagnato da sola percussione augura buon viaggio agli occidentali che sono arrivati fin lì per conoscerlo. Il secondo sciamano, invece,  effettua un rituale magico-medicamentoso. Notevolissimo anche l’incipit dell’Ufficio del “Tchogtchin Qural” del monastero dell’Erdeni Zuu.

            Gli Chants Liturgiques Arméniens [52] appartengono ad una branca autonoma della famiglia indo-europea. Sono stati registrati nella comunità di San Lazzaro a Venezia, dove nel tempo l’ordine dei Mekhitaristi ha tramandato la conoscenza e lo studio dei neumi della tradizione musicale bizantina. Gli armeni adottarono la religione cristiana nel quarto secolo, istituendo nel quinto il rito ortodosso. Solo  dopo molti secoli una parte della chiesa armena riconobbe la supremazia di Roma fondando il Patriarcato Cattolico. Queste vicende epico-religiose fanno sì che l’interpretazione neumatica si presenti particolarmente interessante, probabilmente meno edulcorata rispetto a quella tramandata in Occidente.

            In Chants liturgiques byzantins de Grece [53] l’ Ensemble Théodore Vassilikos presenta una scelta delle melodie della chiesa ortodossa greca. Gli inni compresi nel disco sono prevalentemente del XVIII secolo, quasi tutti sullo schema della salmodia, con un solista che effettua i melismi (molto contenuti, per la verità, seguendo il trattamento sillabico piuttosto breve che caratterizza l’innografia bizantina di quel periodo), ed un coro che l’accompagna con un cantus firmus dai movimenti statici. Per avere un ‘controcanto’ della produzione bizantina pagana, ricordiamo la serie curata da Christodoulos Halaris per Orata, con un ricco apparato storico e iconografico.

            Conquistano i suoni lunghi dei dervisci turchi, placidi nel loro scorrere, risonanti per cavità interne con le microndulazioni simili a pitch vocali, veramente portatori del messaggio di inazione del misticismo sufi. Differenti cerimonie, quella dello Zikr e del Mevlevi sono contenute nei due dischi Chants des Derviches de Turquie  e Musique Soufi[54]. Sempre dedicato ai dervisci, alla cerimonia dei Mevlevis (o dei dervisci rotanti) è il monografico Le Ney Turc[55].

            Spostandoci di continente ritorniamo in Africa, scontrandoci col mare magnum della musica religiosa. Interessante è Messe et chants au Monastere de Keur Moussa[56], che muove dall’originale idea di accoppiare dodici monaci francesi che si ispirano ai solesmensi e dodici percussionisti senegalesi. La dolce melodia di J’ai vu l’Eau vive è accompagnata dall’assiko, una percussione formata da un telaio in legno sul quale è montata una pelle di montone. Il tutto è suddiviso in due parti: dopo i canti da messa, quelli al monastero, composti prevalentemente su testo tratto dai Salmi. Curiosa la somiglianza della Improvisation pour flute et kora con tante danze rinascimentali per flauto e liuto.

            Registrazioni interessanti del Ciad sono raccolte da Monique Brandily in Tchad, Musique du Tibesti, che presenta canti di donne e bambini, raccolti in occasioni cerimoniali e non, come i canti di matrimonio o di circoncisione.

            Le sovrapposizioni tra musiche e culture religiose differenti hanno certamente propiziato l’emergenza di messe contaminate. In Camerun sono presenti semi religiosi differenti: animisti, cattolici, protestanti e musulmani. Gli ultimi arrivati furono i cattolici, nel 1890, che subito istituirono scuole e missioni, col risultato di molti animisti convertiti al cattolicesimo. Un esempio di messe in cui all’impianto formale, alla scanzione dei tempi, si mescolano i ritmi africani è in Messes au Cameroun[57].

            Una traccia sonora della tribù d’Ait Said, aderente alla fascia musulmana che predilige il sufismo, è in Maroc, Musique sacrée et profane[58]. L’invocazione del dio avviene attraverso danze estatiche accompagnate. Ne è un esempio la Jdeb che accoppia flauti e percussioni. «Non ha amici chi non danza al ricordo dell’Amico», recita un mistico musulmano: la Jdeb procede dapprima lentamente, coi flauti che ronzano attorno a note predominanti, poi si sposta in altezza e velocità, in un crescendo che richiama la presenza divina in antiche confraternite di origine guineane.

            La musica liturgica Etiope non prevede l’uso di strumenti a corde; soltanto percussioni rudimentali (come il tamburo tromboconico kabaro) accompagnano i Debteras, sorta di poeti e cantori da chiesa. L’Etiopia è prevalentemente cristiana (copto monoteista), i canti  sono di tre specie: l’ araraye  e lo ge’ez vengono usati durante i periodi  di Pasqua e Quaresima. Il modo ezel è invece il più comune, usato per le celebrazioni funebri, le veglie e le più importanti liturgie. Un esempio di questi modi è in Ethiopie, Musique traditionnelles[59].

 

 

Percorsi trasversali: musica sacra oltre ogni confine

 

            Una religiosità particolare permea l’opera di alcuni compositori europei che sembrano collocarsi al di là del tempo e dei confini.

            Tra questi vi è l’italiano Giacinto Scelsi. La sua produzione, dopo la conversione dalla fase dodecafonica a quella del ‘suono unico’, ha una matrice spirituale di tipo orientale, ed è evidente fin dai Quattro pezzi su una nota sola per orchestra, definiti da Metzger come «il paradigma della sua musica»[60]. Nel 1982, a sessantasei anni suonati, esce il suo primo disco monografico; poi gli accessi si susseguono a raffica. Sono straordinari Uaxuctum  per orchestra e coro, ma anche Hurqualia e  Chukrum[61]. La Fondazione Isabella Scelsi ha poi coprodotto con Salabert, sotto la direzione di Aldo Brizzi i quartetti con l’Arditti String Quartet, Khoom e il Trio[62]. Ma il monografico interamente dedicato alla musica sacra prende titolo dal suo nome. Giacinto Scelsi [63] comprende i Tre canti sacri del 1958 eseguiti dal Groupe Vocal de France diretto da Michel Tranchant, ed il corpo della produzione degli anni ‘70, che sperimenta le possibilità della voce e di alcuni strumenti solisti: Three Latin Prayers, con una toccante Ave Maria, un Pater noster e un Allelulia ; In nomine Lucis, con l’organista Eric Lundquist; l’Antifona per coro e Pranam II,che prende il suo nome da gesto di saluto e preghiera indiano. Pranam II  è del ‘73; viene eseguito per la prima volta a Roma nel ‘75 da De Bernard, ma nel disco è condotto dall’ensemble specializzato 2E2M  diretto da Luca Pfaff. Di questo pezzo esiste anche una versione più lunga diretta invece dal fondatore del 2E2M, Paul Mefano[64].

            Anche Henryk Mikolaj Gorecki, il compositore polacco ‘oscurato’ fino al 1977 dai suoi più famosi conterranei Lutoslawski e Penderecki, scrive musica molto evocativa. Ha trovato infatti gran successo con la sua Terza Sinfonia, ora presente sul mercato con almeno due incisiosi che rivaleggiano in bellezza[65]. Tutti hanno cominciato a parlare del compositore di Katowice, dell’uomo legato ai monti Tatra, e questo ha generato il trascinamento di altri lavori, dalla rigorosa Antica musica polacca, basata su un organum del quattordicesimo secolo (Benedicamus Domino) al Totus Tuus, composto appositamente per la visita del papa in Polonia nel 1987[66]. Sempre una commissione del papa aveva occasionato l’imponente e rigoglioso Beatus Vir, che benché nulla abbia a che vedere con la minimal, ripete il Domine iniziale con insistenza monolitica. In seguito sono stati pubblicati il Miserere, dal flebile e sommesso inizio, ma con una poderosa architettura, e la prima opera per coro non accompagnato, Euntes Ibant et Flebant[67]. Tutta la musica di Gorecki sembra arrivare da lontananze ineffabili, da certezze mistiche che appartengono a pochi uomini. E tuttavia il linguaggio non è semplicemente arcaico, la sua diversità è sempre figlia di questo tempo: si tratta di una mistica congelata in sacche di resistenza, per usare una terminologia foucaltiana.

            La Berliner Messe, affiancata ad un Te Deum e ad un Magnificat[68]  sono pezzi rappresentativi del compositore estone Arvo Pärt, accoppiate a Werner Bärtschi che suona al piano Fur Alina, in cui un linguaggio semplice, una struttura appena appena deviante dai cliché, sembra come per miracolo legittimare ancora la composizione per uno strumento divenuto oggi quasi afono (per ridondanza di repertori e sovrabbondanza di virtuosi). Invece, la formula vincente di Pärt nella musica sacra sta nel conservare intatta una forte connotazione di senso anche in brani piuttosto lunghi, senza negarsi solennità ed espressività. Il suo Te Deum dura quasi mezz’ora, ma il filo dei crescendo, l’incalzare di una pulsazione affidata al basso clamore di un pianoforte, portano l’ascoltatore fino alla fine, richiamando,  per una volta ancora,  gli ampi respiri di una spontaneità quasi dimenticata nell’era dello sperimentalismo deteriore.

 



[1] Con la Real World.

[2] Celluloid, 1983.

[3] Gruppi che si trasmettono l'arte di uno strumento da padre a figlio.

[4] È un liuto a più corde, dal suono simile a quello di un'arpa.

[5] Arion 64036;  64070.

[6] Arion ARN 64112.

[7] Arion ARN 64055.

[8] Arion ARN 64016.

[9] Playa Sound PS 65101, PS65034.

[10] Playa Sound PS 65104; PS 65085.

[11] Rispettivamente Playa Sound PS 65009, PS 65074; Auvides D8029.

[12] Ducale, CDL 012.

[13] Una sorta di doppio tamburo in legno e rame.

[14] Arion ARN 64277.

[15] D 8033.

[16] Arion ARN 64081.

[17] Arion ARN 64077.

[18] Arion ARN 64063.

[19] Arion ARN 64057.

[20] Narada 3912.

[21] Gourd Music.

[22] Narada 2755.

[23] Forse Dave Holland, ma il nome non viene indicato.

[24] Narada 3014.

[25] Narada 3908.

[26] Y 225002, Y 225037.

[27] Silex Y 225007.

[28] Naturalmente non si intende qui demonizzare il mercato come ancora fa tanta estetica di derivazione francofortese.

[29] Narada 3754.

[30] Narada 2763.

[31] Narada 3023.

[32] È un fiato ad ancia.

[33] Music West 134.

[34] Narada 2756.

[35] Narada 2762.

[36] Narada 3022.

[37] Ocora C 558661.

[38] Silex Y 225039.

[39] Ocora C 580037.

[40] Dallo smembramento del maschio primordiale Purusha.

[41] Le Chant du Monde LDX 274 910.

[42] Arion ARN 64045.

[43] Il già citato Unesco/Auvidis D 8033.

[44] Musique du Monde 82493-2.

[45] Si tratta di uno strumento a quattro corde con una curiosa cassa armonica aperta.

[46] ARN 64078.

[47] Ocora C 580016.

[48] Ocora C559011.

[49] Le Chant du Monde CMT 274978.

[50] Auvidis/Unesco D 8301.

[51] Ocora C 560059.

[52] Auvidis/Unesco D 8015.

[53] Arion ARN 64233.

[54] Rispettivamente Arion ARN 64159 e Arion ARN 64061.

[55] Auvidis/Unesco D 8204.

[56] Arion ARN 64095.

[57] Playa Sound PS 65054.

[58] Ocora C 559 057.

[59] Playa Sound PS 65074.

[60] Accord 200612.

[61] Accord 201112.

[62] Harmonia Mundi SCD8904-5.

[63] FYCD 119.

[64] Radio France/Adda 581189.

[65] Elektra Nonesuch  7559-79282-2, ed Emi 7243 5 55368 2.

[66] Argo 436 835-2.

[67] Elektra Nonesuch 7559-79348-2.

[68] ECM 1505.