GIUSEPPE CHIARI, LA MAGIA DEL FLUXUS INTERROTTO

 

 

Girolamo De Simone

 

Ieri mattina è improvvisamente scomparso il musicista Giuseppe Chiari. Tra i pochi italiani ad aver fatto parte, senza ripensamenti ed in modo continuativo, del gruppo Fluxus, il movimento multidisciplinare fondato da Georges Maciunas nel 1961, Chiari era considerato come il padre della musica d’azione italiana, infaticabile ed instancabile agitatore di idee innovative, vera incarnazione dello spirito del gruppo internazionale fondato da Jean Marc Poinsot, sorta di crogiuolo di intuizioni poi confluite in altri movimenti o realizzate autonomamente da artisti, musicisti, performer o singolarità selvagge, senza che questi potessero assumersi la paternità di alcuna di esse. Difatti «le idee fluxus erano comuni», e nessun artista avrebbe potuto prenderne solitariamente il merito con gesto autoritario. Per questa ragione, scriveva Poinsot nel 1980, la storia del movimento non potrà mai considerarsi esaurita, «come Dada manterrà un’aura mitica perché manca di tracce tangibili, pur restando un crogiuolo di proposte».

 

Giuseppe Chiari nasce a Firenze nel 1926; la madre possiede una sartoria, il papà lavora come macellaio al Mercato Centrale. Compie studi scientifici conseguendo la maturità nel 1945, e si iscrive alla Facoltà di Ingegneria. L’approccio alla musica avviene attraverso il jazz e l’improvvisazione, il che ci consente di spiegare la sua voglia di superare la prevedibilità nell’accadere dei suoni, e la ricerca di (indifferenza tra) suoni/rumori inauditi tratti da strumenti non convenzionali (e di suoni trasgressivi, contra(s)suoni, estratti da strumenti tradizionali, aspetto rilevantissimo nel quale risiede la differenza tra il suo paesaggio sonoro e quello di John Cage). Nel 1947 fonda a Firenze con Giampiero Taverna il Circolo degli Amici del Jazz, iniziando anche la sua attività di ‘organizzatore’ musicale. Nel 1950 lascia l’Università entrando nella sartoria della madre, dove lavorerà fino al 1965. Contemporaneamente comincia a comporre, privilegiando il pianoforte. Uno dei lavori più importanti di quegli anni è Intervalli, in cui viene usato il pentagramma ed una notazione di tipo tradizionale. Già allora, però, lo scorrere del tempo e l’ampiezza concettuale dei silenzi assumono un rilievo di grande originalità. Nel 1957 Giuseppe Chiari si sposa con Vittoria Laforgia e nel 1960 nasce Mario. Sempre nel 1960 conosce Pietro Grossi, e nel dicembre di quell’anno fonda con lui la storica Associazione fiorentina ‘Vita Musicale Contemporanea’. In quel periodo nasce anche il fecondo rapporto con il Gruppo 70 di poesia concreta, e tra il ‘61 e il’62 (anno di svolta) quello con il compositore Sylvano Bussotti, partecipando alla mostra ‘Musica e Segno’ alla Galleria Numero di Roma ed alla mostra ‘Gesto e Segno’ alla Galleria Blu di Milano. Nel settembre del 1962 suona Gesti sul piano, a partire dal quale minimizzerà l’uso della notazione tradizionale, senza tuttavia abbandonarla per sempre. Attivissimo, nello stesso anno fonda con Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Sergio Salvi, Antonio Bueno e Silvio Lofredo il ‘Gruppo 70’.

 

Nel 1964 Chiari comincia ad auto(rap)presentare i propri lavori: «da questo momento abbandona sempre più il ruolo di compositore ed il suo statuto, liberandosi delle repressive divisioni di lavoro che questo ruolo continuamente implica, al fine di frangere con la propria presenza attiva il diaframma che ancora sussisteva tra autore, esecutore ed ascoltatore».

Tra il 1967 e il 1968 matura, anche in musica, un differente sentire con il superamento della serialità operato da Stockhausen, la lotta all’autoritarismo delle gerarchie sintattiche e morfologiche del comporre (che colpì in primis proprio Stockhausen), lo sviluppo della musica elettronica (con la conseguente proposta di abbandonare la nozione di ‘avanguardia’ in favore di quelle coniuganti in vario modo la radice dell’ ‘esperimento’), il consolidarsi della pratica dell’improvvisazione quale pulsione antiaccademica, l’assimilazione anche in musica delle caratteristiche libertarie del Movimento studentesco, la crisi di Darmstadt.

Heinz-Klaus Metzger scrive che «la rivoluzione della parola contro il canto e del rumore contro il suono prende in Giuseppe Chiari la svolta radicale contro l’assoluto predominio dell’acustico. Perciò le composizioni di Chiari diventano socialmente decifrabili quale rivoluzione plebea contro le particolari, repressive divisioni di lavoro di ogni società classista, che influiscono sull’organizzazione del giudizio umano».

 

L’infittirsi delle scritture per riviste, la medesima forma di comunicazione del biglietto annotato, il proliferare delle ‘frasi’, molte delle quali divenute celebri, fanno sì che nel 1969 appaia il primo libro: Musica senza contrappunto, cui seguiranno nel ’72 Senza titolo[1] e nel ’73 Teatrino. Nel medesimo anno esce la prima edizione del fondamentale Musica madre.

Si deve subito notare che i libri di Chiari si presentano come opere essi stessi. I caratteri a stampa fanno talvolta soffrire la sua scrittura: per farsene un’idea occorre leggere le sue ‘frasi’ dai molteplici fogli e foglietti, vere opere, che inducono già nella disposizione al pensare/pensarsi divergente. ‘Divergente’ è già la stessa scrittura su pentagramma. Tuttavia, e questo è sorprendente e quasi tautologico, le sequenze di Chiari riuscivano a mantenere una conseguenzialità inedita. Si tratta di una sorta di minimalismo (musicale) antelitteram, laddove pattern di pensiero vanno a costruire una sorta di spartito apparentemente sfilacciato, con interlinee multiple, talvolta con scelta di caratteri variabili (come avviene nel catalogo della sua mostra del febbraio 2006 a Firenze), o di artifici di varia natura

 

Tra il 1972 e il 1973, Chiari autorappresenta suoi lavori in alcuni dei più importanti luoghi d’arte e cultura; tra questi: Galleria Toselli (Milano), Modern Art Agency (Napoli), Staatstheater (Kassel), Kunstmuseum (Luzern 1972); e, ancora: Bitef (Belgrado), Galerie 11 (Parigi), Galleria Schema (Firenze), Galleria Soldano (Milano), Kunstverein (Hannover).

Nel 1976 viene invitato nuovamente alla Biennale di Venezia e pubblica il Metodo per suonare, che raccoglie i metodi elaborati a partire dal 1962, utili a strappare suoni inauditi da strumenti della tradizione occidentale o a rinvenire prassi libertarie per superare le soluzioni offerte da quegli strumenti.

Appare qui centrale il tema politico, intrecciato con quello didattico. Difatti, non appena si gira la pagina, è possibile leggere «ed a questo vero comunismo   comunismo       comunismo / che dobbiamo arrivare», perché suona la città colui che «suona per la strada», ed invece non la suona «chi canta in corteo», o «chi forma un’orchestra e su un podio in una piazza si mette a suonare».

Nel decennio che va dal 1984 al 1994, Chiari conosce una fase che si potrebbe definire ‘storiografica’, alla ricerca rizomatica di frammenti di conoscenza oggi smarrita, posta nelle anse di un sapere noto/non noto (del quale si finge non sia esistito).

Intanto, dopo il Concerto per luce (1981) e Sound (1987) per video, Giuseppe Chiari riprende la scrittura su pentagramma, con un ciclo di fascicoli manoscritti, dalla copertina grigia, inviati ad alcuni interpreti, tra cui Daniele Lombardi, Giancarlo Cardini e chi scrive, intitolati semplicemente Musica.

Chiari aveva ben presente, come si è già notato, che molte delle questioni musicali hanno a che vedere con la politica. E, tuttavia, in una intervista del 2002 aggiunge: «Non è che voglio vincere la rivoluzione. Non è che voglio trasformare e educare, il mio compito non è educare. L’educazione che dà l’arte è indiretta». Del resto un artista Fluxus non può agire politicamente se non attraverso azioni semplici ma dirompenti. La riflessione più recente, quella che parte da Autocritica, e si mostra perplessa di fronte agli sviluppi attuali del marketing musicale, va nel senso di una ‘sconfitta’ non personale dell’artista/musicista Chiari ma di una sconfitta della dimensione comunitaria a scapito di quella nominalistica e personalistica che non farebbe che perpetuare l’errore dei repertori. A marzo del 2006 dichiarava: «la musica, oggi, di tutto quel che ho fatto ne fa tranquillamente a meno, e io devo constatare questo. Non posso non constatarlo. Però questo non significa che abbia sbagliato, o che non abbia fatto ciò che avevo la sensazione e il dovere di fare».

Una futura riflessione critica su questo atteggiamento appare auspicio indispensabile all’indomani della scomparsa di Beppe. L’oper(a)zione Chiari non può essere letta criticamente se non si rispetta il fluxus che vi è in essa, e tuttavia va immaginata nel successivo sviluppo della storia, in ciò che è accaduto davvero nei fatti, nelle abitudini della gente dopo la deflagrante stagione degli anni Settanta ed il lento, necessario, importante lavoro divulgativo e compositivo durato fino ad ieri. Difatti, il flusso generato dagli happenings e dalla musica d’azione è stato teorizzato, tradotto in prassi e superato, in Italia, prevalentemente dalle lucidissime visioni di Chiari: «La musica bassa è musica. / La musica alta è musica. / E ognuno ascolta ciò che vuole». Esattamente ciò che sarebbe accaduto. (Girolamo De Simone)

 

IL MANIFESTO, 10 maggio 2007