LA RIVOLUZIONE DI SCARLATTI

Il 250° anniversario dalla morte

 

inserto culturale del quotidiano ‘il manifesto’ del 2 giugno 2007

 

Girolamo De Simone

 

A Napoli fervono i preparativi per il duecentocinquantesimo anniversario della morte di Domenico Scarlatti. Il Comune, in collaborazione con l’Associazione Domenico Scarlatti,  ha istituito un Comitato per la ricorrenza con eventi che partiranno in luglio: convegni e concerti tematici, messa in scena di capolavori dimenticati o ritrovati, contaminazioni infrageneriche con lo “Scarlatti jazz Project” e lo  “scarlattimusicrock”, su temi del genio del clavicembalo. Si tratta di una occasione irripetibile per proporre un modello ‘divergente’ d’approccio e di riflessione, non meramente celebrativo.

Quello di Scarlatti è un lascito originale, sulla scia di quanto egli stesso annotava in apertura dei suoi “Esercizi” per  gravicembalo del 1738: “... e tu, lettore, non aspettarti il profondo intendimento, ma lo scherzo ingegnoso dell’arte, per addestrarti alla franchezza”: una indicazione che è quasi un precetto, appena mitigato dalla ‘tecnicalità’ del suggerimento, rivolto sia ai ‘professori’ che a semplici ‘dilettanti’. Già questo è indizio che fa luce sulla personalità di Scarlatti, una figura nuova, uno strepitoso compositore-esecutore in grado di rivoluzionare lo stile esecutivo del suo tempo e di sortire novità eccezionali anche dal punto di vista dell’invenzione formale, specie attraverso il corpus, monumentale, delle 555 sonate per clavicembalo.

 

Benché figlio d’arte (con risvolti etici differenti da quelli attuali), il giovane Scarlatti era riuscito ben presto  a sgravarsi dall’ascendenza stilistica del padre Alessandro, sorta di Grande Fratello della scena napoletana, musicista geniale e di potere, incapace, tuttavia, di lanciare il figliolo verso i fasti delle corti europee, così come era invece accaduto a Mozart, che pure a Napoli aveva appreso i segreti della mirabile scuola che vi prosperava. Fin dal principio Alessandro lo invia a Venezia, dove il giovane ha l’occasione di conoscere Gasperini, Vivaldi, e lasciare di stucco il clavicembalista Thomas Roseingrave per una particolare freschezza nell’esecuzione alle tastiere. Richiamato a Roma, riesce a dialogare con il meglio d’Arcadia, con Corelli e Bernardo Pasquini. Carambola poi a Londra, a Lisbona, e continua ad andare e rientrare, tra Roma, Napoli e Firenze. Infine, al seguito dell’infanta Maria Barbara di Braganza approda a Siviglia. La leggenda narra che, ormai stanco e malato facesse ritorno un’ultima volta nella sua Napoli nel 1754, per spegnersi infine a Madrid nel 1757. Con straordinaria lucidità, come sovente accade agli artisti più consapevoli, prima di morire s’era tracciato da sé l’epitaffio ideale: “davvero non mi posso lamentare della vita che ho vissuto. Ho colto tanti applausi a Roma, a Napoli, nelle sabbie di Londra, nella luce ardente della Spagna, perché sapevo fare bene i capricci sulla tastiera... A ventiquattro anni entrai in gara con un giovane che si chiamava Haendel e che era stimato un prodigio, e lo vinsi al cembalo, come lui mi vinse all’organo... Vissi sereno e festeggiato, e forse ebbi un po’ di vena e molta fortuna”.

 

Una storia avventurosa, con passaggi sotterranei, misteriosi, ricca di interrogativi, e che forse proprio per questa ragione è un po’ anomala rispetto a quella di altri geni coevi.

Chi meglio di Scarlatti, innovatore della dissonanza, può infatti essere considerato come icona dell’italianità (e a maggior ragione della ‘napoletanità’) misconosciuta, spesso tradita dalla storia, ricca di precursori illuminati in musica, arte, letteratura, i quali lanciarono idee diventate successivamente e fortunosamente patrimonio comune, salvo poi esser ricondotte ad altri innovatori? La stessa storia strumentale viene ancor oggi (si leggano a mo’ d’esempio Andrè Hodeir o Stuart Isacoff) riferita alle performance francesi o tedesche, limitando le invenzioni italiane soltanto all’opera ed alla vocalità... Quante idee o scoperte divergenti attendono invece nelle pieghe del noto, smaniose d’essere, almeno, depredate? non si tratterebbe di italianità, ma di memoria.

La ricorrenza del duecentocinquantesimo anniversario di Scarlatti è quindi davvero l’occasione per spingersi oltre le celebrazioni: si può ripescare una immensa produzione, o riascoltare in prima moderna opere ignote, oppure note, ma più o meno problematiche. Si possono preparare edizioni critiche, e riflettere su alcune importanti questioni storiche e filologiche: nel calendario, ad esempio, compare un notevole convegno internazionale ideato da Aurelio Musi ed Enzo Amato.  Tuttavia, per agire con lascito Fluxus, non si tratterà certo di affiancare un nuovo nome all’eterna ghirlanda brillante della musica occidentale, quanto di tentare una lateralizzazione per percorsi frattali.

 

Quanti pianisti hanno goduto del piacere tattile delle composizioni originariamente pensate da Scarlatti per il clavicembalo, l’antenato più discreto e poetico di quella che sarebbe divenuta la più importante e chiassosa macchina da guerra del romanticismo? Molti si sono formati sulla celebre edizione di Alessandro Longo, ricca di errori, di tagli e aggiustamenti armonici o mensurali: cosa celava l’accademia, quali novità intendeva nascondere? Forse sarà solo fantasia, ma se si va a guardar bene la storia dell’evoluzione ‘armonica’ della scrittura musicale, si noterà che esiste una storia della dissonanza (dissonanti e proibiti erano taluni accoppiamenti tra suoni) che sembra tradire quella nozione comune riferita per comodità ad Arnold Schoenberg. Sembra un concetto difficile, ma non lo è: se esiste una evoluzione della dissonanza, allora l’armonia non è scritta in natura. La consonanza non è genetica. Come la risata di Aristotele nel romanzo di Eco, così la dissonanza di Scarlatti viene dapprima disconosciuta, e poi cancellata dall’accademia. Tra quanti della mia generazione affrontano le sonate, pochi fortunati approdano alle revisioni di Riccardo Risaliti, o al corpus più massiccio (e costoso) di Emilia Fadini. Era proprio vero che un teorema, definito HMB (Haydn, Mozart, Beethoven) aveva codificato un genere, quello della musica classica (occidentale?), dal quale proprio le musiche di Scarlatti consentivano una linea di fuga, con le scale dalla seconda abbassata napoletane/spagnole/orientali, uniche per collocazione, o con i cluster di note, poi così abusati nel secondo Novecento (si pensi alla celebre Gavotta K 94). Se consideriamo la storia di Scarlatti nella prospettiva della dissonanza, e non solo, riduttivamente, in quella del protoromanticismo o dell’analisi formale si scorgeranno numerose prospettive non convenzionali, tra cui quella dell’improvvisazione nelle pratiche musicali, una pratica considerata eversiva perché alla portata di chiunque. Non servono principi e corti, diplomi ed accademie. Le fioriture più spinte delle prassi improvvisative strumentali, specie clavicembalistiche, innovarono i trattati di armonia, costrinsero i teorici a forzare le regole, fin dal tempo dell’introduzione di una terza voce nel contrappunto. Per questo fu poi necessario disinnescare le prassi, e per questo l’accademia, semplicemente, cancellò le dissonanze dalle opere di Scarlatti...