Konfusion (rubrica)

Musica nuova in Parlamento (versione integrale)

Una imponente levata di scudi si è prodotta in merito alla definizione “musica popolare contemporanea” contenuta nel progetto di legge Veltroni sulla musica. La nozione di ‘popolare’ sta infatti dividendo il mondo della ‘colta’ contemporanea, e con opportunità l’organo ufficiale dell’Ismez, Suonosud, ne ha offerto una (inquietante) rappresentazione raccogliendo gli interventi di una sessantina di musicisti ed operatori. Si è visto così che la nozione è generalmente fraintesa, e riferita spesso alla musica leggera, la quale non avrebbe bisogno di fondi perché “la musica di consumo si sostiene già gagliardamente da sé”. Più di un autore ha contestato l’opportunità della commistione tra generi, perché porterebbe a confondere l’aulica musica di “Nono con quella di Nino (D’Angelo)”.

Ma più che contrapporre la popular (etnomusicologia, folk ed emergenza di tutto quanto è radicato nella terra e prodotto attraverso forme spontanee, non edulcorate dall’accademia) alla produzione ‘colta’ (sulla quale grava l’eredità teorica adorniana) sarebbe il caso, come consiglia Richard Middleton, di “guardare da ambedue le parti, superando la tensione”. Solo questo ci consentirebbe di passeggiare all’interno della complessa stratificazione-fratturazione presentata attualmente dai linguaggi musicali, e di accettare le differenze topografiche come articolazioni (gramsciane) di un discorso comunque fortemente radicato all’interno delle classi sociali. Anche Franco Portelli, su queste stesse pagine, ha rilevato che l’italiano ‘popolare’ è apparentemente antitetico al ‘popular’ di matrice anglosassone e americana,  e che “la cultura americana riconosce che un buon musical è meglio di una mediocre opera lirica, un buon film meglio di un mediocre e pretenzioso romanzo. Non solo: ma che il giudizio sulla qualità di un musical o di un film va dato negli stessi termini”.

Ora, senza pretendere di fornirne una interpretazione autentica, la sensazione è che il senso della parola ‘popolare’ contenuta nel progetto veltroniano, laddove essa venga coniugata con il ‘contemporaneo’, non possa che indicare ‘anche’ la musica leggera, nelle sue esigenze di ricerca e promozione del nuovo più che in quelle legate alla mera veicolazione di consumo. Ma che questa inclusione non possa più essere considerata come una intrusione esteticamente non fondata. Inoltre, la dizione “musica popolare contemporanea”, stando anche ad una serie di incontri con i musicisti realizzati intorno alla bozza del progetto di legge (tra cui quello di Napoli alla Mostra d’Oltremare), non escluderebbe affatto la produzione ‘colta’ contemporanea, non appena essa si decidesse ad abdicare ad un presupposto di autenticità che oggi appare del tutto infondato, e davvero ideologico.  Questa sensazione sembrerebbe confermata dalla lettura dell’intero capo di legge, perché il senso dell’intervento legislativo sulla musica popolare contemporanea viene articolato verso il potenziamento della ricerca e della elaborazione anche di musica elettronica e, in generale, verso lo sviluppo tecnologico legato alla musica.

Il profilo della semplice “musica contemporanea italiana”, invece, resta legato all’ esecuzione di partiture scritte a casa dai compositori di penna: ma non è questa la strada che la legge sembra suggerire alla ricerca. Il profilo della ricerca ‘colta’ su materiali ‘popolari’ , che musicisti ‘colti’ come Enrico Renna, Mario Cesa, Giovanni Tamborrino conducono da anni, infatti, non è per nulla escluso dalla dizione ‘popular’, almeno non in senso costitutivo. E poi chi ha detto che una ricerca ampia, priva di preconcetti esclusivistici non possa ricevere l’attenzione che la musica di consumo, in fin dei conti, già si guadagna sul campo? Non esistono gruppi gettonatissimi di musica popolare (i Tenores di Bitti, le interpreti di ‘fado’, etc) che girano i festival europei e la cui collocazione ‘di genere’ appare piuttosto difficoltosa? Sull’altro versante, non è il Kronos Quartet che ha utilizzato le voci del popolo Tuva assieme ad un fitto e complesso reticolo creato dagli archi? 

Forse ciò che si fatica ad accettare è la necessità di scardinare il confine (border), ratificando alcuni dati di fatto ineludibili: l’utilizzazione di stilemi provenienti dai diversi generi, popolari o colti; la lenta evoluzione della sintassi musicale in direzione di un linguaggio globale, composto solo in piccola parte dalle conquiste della musica colta occidentale.

Girolamo De Simone

Il manifesto 28 giugno 1998