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Luci ed Ombre della questione neomelodica

«Il Sud è stato fuori da ogni serio interessamento politico e culturale, anche a sinistra»: da questa denuncia parte Carlo Donolo in Questioni meridionali , pubblicato dall’editore napoletano l’ Ancora.  E’ il lavoro di un settentrionale che si dichiara «meridionale per vocazione», e che dal pulpito dell’amicizia, benché nel testo solleciti poi alla diffidenza verso gli amici dichiarati, propone analisi e diagnosi delle ferite che affliggono le città meridionali. Il libro ha già scatenato un dibattito (anche sulle pagine de “il manifesto”, con un intervento di Enrico Pugliese), e certo ancora se ne parlerà, anche perché si ricollega indirettamente al Pensiero meridiano di Franco Cassano e alle denunce di Francesco Barbagallo in Napoli fine Novecento. La musica e la cultura appaiono sullo sfondo delle Questioni meridionali, ma non vengono sottovalutate da Donolo, perché «chi canta, chi racconta, chi studia, chi percorre il Sud traendone suoni lamenti proteste e ragioni alimenta la speranza di tante generazioni».  I falsi amici del Sud, invece, si sono sempre dichiarati conciliati, ovvero attratti dal folklore locale, dall’aura di ‘alternativa’ emanata da luoghi che, spesso deliberatamente, si pongono «ai margini della crescita e dello sviluppo», e per i quali il postmoderno è accettato solo per le merci che lo rappresentano (dai cellulari ai tre ‘quartini’ di proprietà). Ciò naturalmente non significa rinnegare i prodotti più specificamente etnici: «che si possa avere sviluppo pur mantenendo caratteri locali marcati lo si è visto nel caso di regioni come la Catalogna e l’Andalusia. L’identità è cultura e la cultura è movimento, come mostrano proprio i prodotti culturali più significativi del meridione oggi, per esempio la musica». Molti quindi i motivi di riflessione per critici, musicisti ed intellettuali del Sud, soprattutto per una luminosa intuizione di Donolo: la vera fonte di forza, la visione della ‘polvere di dio’, il superamento del pianto delcardillo addolorato’ sta nella cura della memoria. La memoria potrebbe scardinare la propensione meridionale alla tragedia, e fornire «argomenti per la critica del presente, avendo cura e affetto per quei contesti anche fisici in cui il passato si è cristallizzato». Infatti alla perdita di memoria, allo smarrimento quotidiano delle presenze di quanti vi operano, alla rimozione di chi nel passato ne è stato «vittima», corrisponde il peggior nemico del Sud, la sua irriducibile «ansia di distruzione». 

 

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Un altro editore napoletano, Pironti, ha da pochi giorni pubblicato Dentro il vulcano, un libro dedicato al fenomeno dei ‘neomelodici’, ovvero dei cantanti 'di quartiere' specializzati in feste nuziali nell’ hinterland partenopeo, assunti a recentissima notorietà nazionale grazie ad alcune trasmissioni su Rai Due e a diverse puntate del "Maurizio Costanzo Show". Così già la televisione aveva ripreso il luogo comune della Napoli iconografica, dei 'quartieri', degli 'scugnizzi',  insistendo sul Leitmotiv  mare/sole/tarallucci. Una panoramica parziale, dove molte altre realtà, di ricerca e produzione, erano state oscurate oppure 'messe tra parentesi'.

Di queste realtà e memorie inconciliate, rimosse, non poteva che tacere anche Dentro il vulcano, il cui autore, Federico Vacalebre, già altrove aveva offerto una visione un po' localistica e acquartierata dei fenomeni musicali che attraversano la ‘città porosa’. Ora scrive che la parte di Napoli rappresentata dai neomelodici «non fa opinione» e «non finisce nelle cronache mondane dello stupidario quotidiano» (ma chi cura quelle cronache?), e che la musica neomelodica può dirsi perfettamente 'contaminata'. Poi, allo stesso tempo, le attribuisce tutte le caratteristiche della conservazione: dal «pop etnicamente marcato (...) quasi un Dna etnicomelodico», ai testi ed allo stile, «tutto teso all'utilizzo del già noto, dei materiali quotidiani, dell'esaltazione acritica di valori come: la mamma, la famiglia, Dio, la salute ...». Sfugge davvero dove possa stare la contaminazione in un contesto così etnocentrico. L’aspetto sociologico, dal quale potrebbe scaturire la validità estetica delle canzoni neomelodiche, scompare, e lascia il posto ad una ‘tirata’ giornalistica: si critica Sanremo, che però legittima il nuovo Nino D'Angelo; si fanno a pezzi gli intellettuali, che poi vengono citati a profusione (Fofi, Abruzzese, Perniola...); si raccomanda vivamente di non politicizzare il fenomeno, poi si magnifica lo schieramento al fianco delle “Posse”. Contraddizioni che più che spiegare il cosiddetto 'paradosso neomelodico', ripropongono quello della critica musicale che se ne occupa con soave levità.

Tra le incongruenze, la principale sta nel celare fra le righe l’atteggiamento pregiudiziale che si vorrebbe combattere. E il pregiudizio peggiore è che  la 'massa' (qui identificata con il popolino dei quartieri, di Afragola, delle 167) possa e debba amare i neomelodici solo perché se li ritrova nel vicolo accanto. Non serve citare il raï o il rap, perché questi nascono dalle  emergenze e proteste di portata rivoluzionaria, anche in senso tecnico-musicale, riuscendo a rivitalizzare tutta la comunità. La musica neomelodica, invece, sembrerebbe oscillare tra la continuità/contiguità con i peggiori fenomeni metropolitani ed il racconto conciliato, e quindi conservativo, di ciò che circonda i falsi scugnizzi, quelli che possono permettersi auto da corsa, servizi d'ordine, cellulari a profusione, produzioni video e discografiche. Certo, questi ‘scugnizzi’ vendono i loro dischi sottocosto:  proprio quello che serve per combattere la globalizzazione.

 

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Si è affacciato timidamente, e pare essere caduto nel vuoto, perché il dibattito pubblico, ancorché estivo, tende a passare di moda. Ma è il caso di segnalare un intervento di Giuseppe Tortora sul principale quotidiano di Napoli, il “Mattino”. Descrive il contenuto di una canzone neomelodica, ne ricerca analiticamente certe ragioni nascoste, che definiscono i contorni di una napoletanità odiata da Neiwiller, Striano, Cilio. L’eroe neomelodico aspetta un bus per andare al lavoro. L’autobus però non passa. Ecco il pretesto: si va a ‘pariare’. Nichilismo, disprezzo per il lavoro, esibizionismo e consumo della vita. «Altro che passo dopo passo bassoliniano: il passo deve essere più lungo della gamba, sempre. Altrimenti il vicolo ti caccia, non ti riconosce i gradi».

Il vicolo ti caccia, ed è la fine del mondo.

Girolamo De Simone

Il manifesto, 11 settembre 1999