PERCHÉ KONSEQUENZ (1)
Girolamo De Simone

Il nome ‘Konsequenz’ è mutuato dall’Adorno di Improptus, e precisamente dal saggio dedicato ad Anton Webern, dove la parola esprime la nozione di «echeggiamento», e di sviluppo del conseguente di una frase. Tuttavia, le ragioni della scelta non sono tanto quelle dell’omaggio, quanto quelle del disagio patito dalla sensibilità estetica di oggi rispetto a tesi che hanno condizionato per anni la produzione teorica sulla musica contemporanea.

Già la dicitura ‘musica contemporanea’, al singolare, sembrerebbe affermare la distinzione tra una produzione ‘doc’ qualificata dalla militanza sperimentale (o dai canali didattici istituzionali), ed una profusione d’altra musica, sistematicamente ridotta entro i confini di genere, e rappresentata da etichette che, si sa, prima o poi finiscono per essere superate per tempi e invenzioni velocissime, senza mai riuscire ad avere quella ‘consacrazione’ di eternità tipica delle opere d’arte di un glorioso passato musicale. Né soddisfa il ricorso all’immagine di «nuova musica», come se bastasse il crisma della novità a conferire un significato all’opera.

Si capisce, così, che Konsequenz esprime da un lato la saturazione di una cultura musicale che s’è nutrita a sufficienza delle litanie sul consumo, la reificazione, l’imbarbarimento dell’arte, dimenticando spesso che erano pronunciate nel deliberato intento di promuovere uno soltanto dei modi di comporre; dall’altro rappresenta la presa d’appoggio per riconsiderare le vicende della produzione attuale, questa volta senza barriere ideologiche e costruzioni gerarchiche.

L’arroganza, lo spirito d’intolleranza, le sviste storiche (2) e teoriche (3) di alcuni scritti di Adorno, soprattutto laddove si realizza un confronto con il jazz, la cinematografia, le trascrizioni non autorizzate, la musica giovanilistica, e in genere con qualsiasi autore potesse fare ombra su quelli da lui prediletti, furono effetto di un metodo solo in apparenza asistematico e micrologico. La micrologia nascondeva l’esistenza di minuscole entità numeriche, simili alle cellule musicali che sarebbero state usate dagli strutturalisti, poi organizzate in un insieme più che logico, e soltanto in apparenza asistematico. Basta confrontare i testi delle conferenze con quelli destinati alla pubblicazione, o considerare la Teoria estetica per quel che è: un work in progress (4) la cui ferrea progressione risulta spezzata per eventi incontrollabili. Temi dominanti, quasi seriali, si rincorrono lungo gli anni per gli scritti del francofortese (5), e non è un caso che egli venga oggi accostato ad un altro autore seriale, Michel Foucault (6). Lo strutturalismo ed il positivismo, aldilà delle aperte dichiarazioni di ostilità provenienti da Adorno, diviene in Foucault serie attraverso la nozione di sviluppo lineare (sub-infra-lineare, pieghe del discorso, etc.), indovinata da Deleuze, ed ispirata forse alle descrizioni poetiche di Henry Michaux ( 7). Ed una corrispondenza, naturalmente univoca, proclamava Foucault, rammaricandosi di aver conosciuto solo in vecchiaia il lavoro di Adorno.

Ancora disagio provoca la tradizionale dicotomia tra Stravinskij e Schönberg, proposta come inconciliabile opposizione di estremi. Sfuggiva al nostro che l’ Harmonielehre parla di una continuità quasi naturalistica tra l’armonia tradizionale e l’invenzione del linguaggio con dodici suoni ( 8). Anche il collante tra passato e futuro, la forma, ci appare nella scia della tradizione. Insomma, lo sviluppo che Schönberg ha propiziato risulta infine lineare, conseguenziale, necessario (9). Per prolungare la metafora attraverso Deleuze e Guattari, è sviluppo arborescente, nato e pasciuto su solide radici, infine venuto alla luce del sole sotto forma di fragili ramoscelli (10). Quello di Stravinskij (ma anche altri fecero molto in questa direzione) è uno sviluppo non rettilineo, stratificato, proteiforme, multidirezionale. Il suo modello è rizomatico, simile a funghi o radici che si sviluppano in modo indipendente, e tale da consentire un piano eteroreferenziale di gran lunga più interessante e vario di quello Schönberghiano.

Del resto, col senno di poi, si può leggere retrospettivamente la storia recente per valutare quanto le tesi di Adorno dovessero essere smentite dai fatti concreti della produzione e fruizione musicale.

Difatti, l’eterogeneità degli stili, l’arte della citazione portata agli estremi, la stessa confusione e contaminazione tra generi, non doveva condurre ad un imbarbarimento (anche perché di un vero e proprio «imbarbarimento» non avrebbe forse senso parlare) ma ad un ampliamento di consapevolezza, ad una visione multietnica dai linguaggi variegati e pluriformi. Così come nell’era della multimedialità virtuale (ma anche reale e concreta), non ha più senso parlare di purezza di una razza, o di salvaguardia di una cultura che si distingue tra le altre, non avrà, ed effettivamente i dati di vendita lo dimostrano, non ha più motivo di esistere una differenza gerarchica tra i prodotti e le creazioni artistiche. Ciò non vuol dire affatto che una qualità non esista, o non possa esistere: essa risiederà però, più propriamente, nella capacità dell’opera di rinviare ad altro, di rimandare al diverso, di richiamare una realtà nuova che non ha più nulla in comune con la salvaguardia di un’etnia in particolare, ma che parla per un villaggio globale della comunicazione, la quale è relazione fra sé ed altro. Non più una qualità per insiemi numerici di contenuti o per organizzazione formale di contenenti. Ma ‘qualità’ come eteroreferenzialità.

Non si fa qui soltanto teoria: se si osservano le classifiche discografiche, oppure, in modo non mediato (aggirando cioè le presunte influenze dell’industria), si registrano le reazioni del pubblico in una sala da concerto, si può notare: a- un calo delle vendite e dell’attenzione rispetto alle produzioni cosiddette di ‘repertorio’; b- soltanto la parziale sopravvivenza delle produzioni monografiche e/o relative ad autori o brani poco conosciuti, rari, sconosciuti; c- la saturazione anche di generi come il jazz o il rock.

Contemporaneamente, pare si stia verificando un fenomeno di inversione di tendenza (sintropia) in merito alla cosiddetta morte dell’arte (entropia): vendono maggiormente, e appaiono radicate nella nostra cultura massmediologica quelle composizioni che non attuano più una finzione di autonomia, di costituzione unitaria; opere, cioè, che sono più ‘autentiche’ perchè riescono a non ignorare l’altro, il diverso , il quale ci è intorno grazie alla intermediazione di strumenti di eccezionale velocità di comunicazione. In ciò, l’industria ha una parte importantissima, veicolare. E la stessa vendita non fa che contribuire all’accelerazione verso il villaggio globale. Inoltre, se gli investimenti in direzione della ricerca sono possibili soltanto in ragione della vendibilità di un prodotto, quest’ultimo è effettivamente vendibile quando riesce ad essere interstiziale con la realtà, cogliendone anche gli aspetti di con-fusione, di irradiamento sociale, di velocità televisiva o telematica. Il futuro vedrà il successo degli ipertesti, delle favole interattive, delle opere in cui il linguaggio farà posto ad un discorso non più articolato, ma frammentario e strumentale ad ogni esigenza. Gli ascolti verranno diversificati, scegliendo atmosfere differenti per ciascuna finalità. Una musica per ogni possibile uso.

Anche la ricerca fine a sé stessa, gli aridi sperimentalismi di un lungo periodo decadente, in questa diversa prospettiva, e grazie ai segnali che si colgono proprio nell’ambito ancora dei generi, ci sembra finita, nel senso che ci pare finalmente incanalata al servizio della relazione, del rapporto, e svincolata dall’assurda corsa alla novità per la novità, spesso incapace di trasmettere alcunché. Pare finalmente che essa torni ad una forma di spontaneità d’applicazione. Le sale deserte, le provocazioni dello sperimentalismo, la noia di lunghe serate dedicate alla ‘musica contemporanea’ che si trascinavano senza vita e senza entusiasmo ci paiono lontane mille miglia da quanto può avere successo, e vendere, e quindi essere ‘connesso’ con le nostre esigenze di ampliamento multidirezionale, di irradiamento rizomatico, di perlustrazione infrastratica. L’uniformità, l’unidirezionalità ha stancato tutti. Occorre dirigersi con coraggio verso l’esplorazione dell’infinitamente coesteso, che è anche musica di consumo, musica benedetta, se il consumo rappresenta una parte delle nostre esigenze. L’irradiamento, infine, non esclude la possibilità di continuare ad esplorare, senza dichiararle esaurite, le diverse unità lineari. Dopotutto, nulla vieta gli estremi filologismi, le analisi comparate fra le mille esecuzioni possibili dei centomila interpreti esistenti, le infinite variazioni numeriche degli strutturalisti più rigorosi. Oggi nessuno si scandalizza se esistono gruppi di musica rinascimentale, e un successo commerciale può essere raccolto anche da antiche sequenze, eseguite da fulgide star: monaci raccolti in preghiera. Ogni ironia scompare se si ripone il giudizio di valore (la qualità) nella capacità di rimandare ad altro, senza confonderla con la quantità, che è data dalla complessità dell’insieme considerato.

Quindi, concludendo:

1- Deve essere possibile un’osservazione dell’opera senza aver precostituito alcuna categoria: l’appartenenza ad una industria culturale, la sua strategicità nell’ambito del gioco potere/sapere, la vendibilità, seguono ad una qualificazione derivante unicamente dalla capacità del rinvio ad altro.

2- Le opere ‘commerciali’ (per accessibilità, ripetitività, fruibilità, modularità...), costruite ad hoc dall’industria culturale, non vanno sottovalutate. Già procedendo negativamente, non è detto che non possano avere ‘qualità’ estetiche di tipo anche tradizionale; inoltre, per il fatto di essere ‘costruite’ per la vendita, andrà considerata attentamente la complessa strategia di marketing che consente un aggancio privilegiato con l’esterno.

3- Permangono, evidentemente, anche delle ragioni insite nel carattere intrinseco dell’opera che giustificano la sua immediata veicolazione, la capacità esponenziale di rimandare ad un infinito potenziale di riferimenti. I più giovani consumatori di musica leggera sono capaci di ‘datare’ la merce che vien loro proposta. Essi riescono a storicizzare l’opera, spesso ricorrendo allo strumento di un linguaggio non lineare, rivolgendosi piuttosto agli elementi costitutivi del prodotto (ad esempio al timbro usato, o alla perfezione dei ‘bit’, degli impulsi ritmici più piccoli: meraviglie consentite dall’uso dei più aggiornati software musicali anche domestici ): se ciò avviene, vuol dire che le opere preconfezionate dall’industria (e piena dignità estetica hanno anche gli ‘stacchetti’ pubblicitari) sono collocabili in un tempo determinato, e devono soddisfare esigenze sempre diverse dei più giovani fruitori.

4- Opere differenti con agganci multipli ed incrociati riescono già per ragioni costitutive a connettersi con facilità ai molteplici piani del quotidiano, riuscendo a comunicare stati d’animo differenti per ciascuna necessità ed occasione.

Esse saranno maggiormente vendibili con gran soddisfazione di tutti.

 


[1] Apparso come editoriale del primo numero di Konsequenz (rivista di musiche contemporanee edita dalle Edizioni Scientifiche Italiane), questo saggio spiega le ragioni estetiche utili a comprendere la fondazione di una nuova rivista dedicata ai plurali in musica.

 

[2] Ad esempio, in ‘Invecchiamento della musica moderna’, dapprima conferenza e poi saggio del nostro, c’è questa frase: «Già c’è da dubitare che duecento anni fa l’oblio di Bach e il sopravvento del nuovo stile galante fossero realmente una reazione sana e un fatto positivo, come viene per lo più interpretato nella storia della musica» (in T.W. ADORNO, Dissonanze, Milano 1981, Feltrinelli, p. 159). Peccato che qui poco c’entri la storia della musica: Bach moriva nel 1750, ma dopo la morte veniva pubblicata l’Arte della Fuga, il figlio Emmanuel stampava il trattato sulla vera arte di suonare il cembalo, enumerando e raccontando in realtà gli insegnamenti del padre. I numerosi allievi di Bach diventavano abili organisti o maestri di cappella. Tenendo conto che l’epoca non era ancora asfissiata dalla supponenza del concetto di repertorio, si può ben dire almeno che l’oblio sia cominciato un po’ più tardi. Che le cronologie e le letture trasversali non siano il forte di Adorno è suggerito anche dal fatto che lo stile galante si affermò ben prima della morte di Bach, nel 1730 circa e che, anzi, dopo la sua dipartita acquistò proprio con il figlio di Bach un carattere di maggiore espressività.

[3]Alcune di queste incoerenze sono segnalate in G. DE SIMONE, Manuale del mancato virtuoso, Napoli 1993, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 70 ss. ( in relazione ad alcune affermazioni contenute in Terminologia filosofica ), pp. 74 ss. (in relazione alle inesattezze collocate in Prismi ). Altri percorsi, non necessariamente così critici, sono in G. DE SIMONE, Le parole sospese, Napoli 1988, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 41 ss. e in G. DE SIMONE, L’invenzione della dodecafonia e il dissidio Schoenberg-Mann, Napoli 1990, Flavio Pagano Editore.

[4] Ad esempio, il discorso sulla verità dell’arte, e sulla possibilità concreta della sopravvivenza dell’incanto ricorre in più punti dell’estetica, specie dove Adorno si riferisce all’utopia della costruzione. Qui ritorna l’idea di una perdita di tensione dell’arte, dovuta sia alla soggettiva debolezza che all’effetto della costruzione, la quale si traduce nello sforzo di giungere a qualcosa di «estensivamente normativo» (T.W. ADORNO, Teoria estetica, Torino 1977, Einaudi, p. 98). Si ripresenta l’idea del movimento causato dallo scontro tra l’incanto proprio dell’opera e il disincanto del mondo, che tuttavia non può mai essere cancellato (p. 99). I temi della verità dell’arte e della perdita di tensione dell’opera ricorrono in modo simmetrico: a p. 91: «la totalità alla fine inghiotte la tensione»; poco più avanti si espone la verità dell’arte nel duplice senso di mantenimento di certi fini e di prova dell’irrazionalità del vigente. A ciò corrisponde quanto detto a p. 99: «l’attuale perdita di tensione dell’arte costruttiva non è solo prodotto di soggettiva debolezza bensì effetto dell’idea di costruzione»; e poco avanti, l’arte «ha verità in forza della critica che mediante la sua esistenza esercita sulla razionalità divenuta ai propri occhi un assoluto». La struttura si ripropone ancora a p. 140: «l’arte oggi non è quasi più pensabile altrimenti che come la forma di reazione che anticipa l’apocalissi. A un più vicino sguardo anche creazioni artistiche di calma gestualità sono uno scaricarsi non tanto delle emozioni accumulate dal loro autore quanto alle forze che nelle opere stesse si combattono»; e, sulla verità: «Quando un inesistente spunta come se fosse esistente, si mette in moto la questione della verità dell’arte». Tutto ciò, ma è una piccola selezione di risultati da rendere noti in sedi più idonee, fa pensare all’esistenza di cellule strutturali ripetute ed intrecciate con altre, vere e proprie variazioni su temi, quali l’allergia dell’arte alla magia, la sua lontananza dalla teologia, l’ideale del nero, la dissoluzione del sociale, la similitudine tra questa disgregazione e l’entropia dell’arte. Questa metodologia, l’itineranza e la reiterazione di cellule, pare confermare la possibilità che le opere di Adorno seguano un principio di costruzione strutturale che rispecchia il suo snobismo estetico: l’esoterismo della scrittura musicale si contrappone all’exoterismo tipico delle opere facilmente e «falsamente» fruibili. Queste strutture microscopiche provano altresì l’esistenza di uno schema formale piuttosto solido, anche se accuratamente celato.

[5] Ad esempio, in Minima moralia (Torino, 1979, Einaudi) il tema dell’ entropia ricorre ciclicamente a pag. 33, 143, 198, 260-287; quello di individuo a pag. 129, 175 e 177-181, 190, 278. E così via...

[6] «Così, in questo secolo, non c’è biologia ma una storia naturale che forma un sistema solo organizzandosi in serie; non c’è economia politica ma un’analisi delle ricchezze; non filologia o linguistica ma una grammatica generale» (G. DELEUZE, Foucault, Firenze 1987, Feltrinelli, p. 126)

[7] Per Deleuze/Foucault, strategia è un diagramma di forze o di singolarità interne ai rapporti di forza; essa è presente ad ogni strato atmosferico del «fuori». E il «fuori» ha un al-di-sotto, che è quello delle singolarità microfisiche. Le strategie sono aree, contrariamente alla stratificazione, proprie della terra. Esistono poi singolarità selvagge, «non ancora legate, anch’esse sulla linea del fuori e che ribollono proprio al disotto dell’incrinatura». E’ la linea di Melville «oppure la linea di Michaux» (G. DELEUZE, cit., pp. 122-123). Difatti, per Michaux: «come nel Mondo ci sono anfrattuosità, sinuosità, come ci sono cani randagi/ una linea, una linea, più o meno una linea.../ In frammenti, in cominciamenti, colta di sorpresa, una linea, una linea.../ ...una legione di linee» (H. MICHAUX, Brecce, Milano 1984, Adelphi, p. 190). Le linee, pertanto, hanno un fuori e un dentro, costituito dalle pieghe, dagli anfratti del piano.

[8] A. SCHOENBERG, Manuale di armonia Milano 1980, Il Saggiatore, pp. 34 ss.

[9] Uno sviluppo con intuizioni geniali, naturalmente, ma che della linea mantiene la direzione, curandosi poco di un’altra possibilità, quella dell’esplosione del piano per migliaia di punti in fuga. Una sorta di ‘costellazione’, per fare il verso ad Adorno, che però può essere metaforizzata attraverso la forma della spirale.

[10] Vale la pena di precisare che quella arborescente è una struttura gerarchica: «I modelli corrispondenti sono tali che un elemento non vi riceve le sue informazioni se non da un’unità superiore, e una destinazione soggettiva, da collegamenti prestabiliti» (G. DELEUZE - F. GUATTARI, Mille piani, vol. I, Roma 1987, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da G. Treccani, p. 23.)